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L’Africa nei musei d’Europa: alla ricerca di nuove relazioni

Il patrimonio artistico “tangibile” dei Paesi subsahariani è conservato tra il 90 e il 95% al di fuori del continente, nei grandi poli espositivi occidentali. In Francia si apre il dibattito sulla repatriation. Anche l’Italia è coinvolta

Tratto da Altreconomia 212 — Febbraio 2019
Maschere della costa d’Avorio custodite nel Museo di Verona © U.Betton

“Il patrimonio africano non può essere prigioniero dei musei europei”. Il tweet dell’Eliseo era stato preceduto dalla storica dichiarazione di Emmanuel Macron, a Ouagadougou: “Voglio che entro cinque anni siano soddisfatte le condizioni per la restituzione, temporanea o permanente, del patrimonio africano all’Africa”. Era il novembre 2017 e, tra applausi e fischi, il presidente francese riapriva così il dibattito sulla repatriation, inaugurando “una nuova era nei rapporti culturali tra Africa e Francia, e più in generale in Europa”. Scrivono così l’economista senegalese Felwine Sarr e la storica dell’arte francese Bénédicte Savoy, incaricati proprio dalla presidenza francese di condurre una ricerca su questo tema nel contesto dell’Africa subsahariana.

La loro “Relazione sulla restituzione del patrimonio culturale africano. Verso una nuova etica relazionale” è stata scritta a quattro mani tra Dakar, Berlino e Parigi nell’estate del 2018 e pubblicata in novembre. Secondo gli autori, le dichiarazioni di Macron sono state ancora più forti perché fatte “dopo decenni di negazione o di dichiarazioni rischiose sui benefici della colonizzazione. Farsi carico (da un punto di vista storiografico, psicologico e politico) di questo ‘passato che non passa’ è una delle maggiori sfide collettive dell’Europa del XXI secolo”, scrivono nell’introduzione alla relazione. Una sfida che dovrà “puntare al cuore di un sistema di appropriazione e alienazione -il sistema coloniale-, di cui alcuni musei europei sono oggi archivi pubblici”. Secondo Sarr e Savoy, pensare alla restituzione comporta la costruzione di “ponti verso rapporti futuri più equi”, inclini “al dialogo, alla polifonia e allo scambio”.

Quasi tutto il patrimonio tangibile dei Paesi subsahariani -tra il 90 e il 95%- è conservato al di fuori del continente africano, nei grandi musei occidentali. Una “distribuzione ineguale” che con “la sua bella presenza nei musei” e la sua assenza in Africa ha generato dei “vuoti di memoria” profondi in particolare per i più giovani, in un continente in cui il 60% della popolazione ha meno di 20 anni. A essere in gioco è “l’accesso dei giovani africani alla propria cultura, creatività e spiritualità d’altri tempi”, scrivono Sarr e Savoy, attenti al “diritto al patrimonio” sancito nel 2005 dal Consiglio d’Europa nella Convenzione sul valore dell’eredità culturale per la società.

Anche in Italia il collezionismo di oggetti esotici inizia presto, “con i primi viaggiatori e i missionari, in epoca precoloniale”, dice Cecilia Pennacini, direttrice del Museo di antropologia ed etnografia dell’Università di Torino. “Si trattava in questi casi di opere acquisite in una fase di conoscenza reciproca, spesso su commissione, non in un contesto violento come quello che sarebbe venuto dopo”. Poi, nella seconda metà dell’Ottocento, il commercio d’arte africana porterà in Italia oggetti che andranno a costituire le raccolte dei musei etnografici scientifici. “Molti di questi erano confiscati per ragioni legate all’evangelizzazione; in altri casi erano acquistati in transazioni ineguali e ambigue: scambi che oggi sono difficili da ricostruire in modo veritiero”.

A essere in gioco -scrivono Felwine Sarr e Bénédicte Savoy- è “l’accesso dei giovani africani alla propria cultura, creatività e spiritualità d’altri tempi”

Secondo Pennacini il dibattito alimentato dalla Francia è interessante anche per l’Italia, perché “finalmente riconosce in modo esplicito le responsabilità dell’Europa nel possesso e nella gestione del patrimonio culturale altrui”. Ma non bisogna dimenticare che “in Africa la concezione di patrimonio è molto diversa dalla nostra”. “Le comunità africane conservano il patrimonio nei siti sacri, attraverso l’oralità e le performance, o con il culto di oggetti sacri. Si parla, infatti, di living heritage: il patrimonio è vivo e trasmesso nei rituali”. Il museo, invece, resta un costrutto occidentale nato con le colonie. “Esistono dei musei subsahariani, ma la loro integrazione nel tessuto culturale è più difficile. Non sono sentiti come spazi importanti, beneficiano di pochi finanziamenti e vivono soprattutto nelle zone più turistiche”.

La sala Africa del Museo delle Civiltà di Roma © Museo delle civiltà

Egidio Cossa, africanista del ministero dei Beni culturali, già direttore delle collezioni africane del museo nazionale Luigi Pigorini di Roma -che, con il Museo nazionale di antropologia ed etnologia di Firenze, custodisce la collezione italiana più importante-, ritiene inoltre che l’Africa non riuscirebbe a conservare e valorizzare questo patrimonio. “I musei non hanno le caratteristiche per garantire la conservabilità dei beni e sono messi a rischio da improvvisi mutamenti politici e dalle mire dei collezionisti e dei mercanti”. Cossa si dice anche contrario alla regionalizzazione delle culture che deriverebbe dalla restituzione delle opere. “In questo modo si mette a rischio l’universalità dell’arte”, dice.

Ma i due autori del testo commissionato da Macron, ritengono che questo sia un argomento che trascura la storia della cooperazione museale che ha fatto circolare le opere tra Europa e Africa. “È necessario che altre culture siano rappresentate nelle istituzioni africane -scrivono-. Allo stesso modo, è importante che gli oggetti del patrimonio africano rimangano visibili nelle collezioni europee e mondiali in modo che l’Africa possa garantire la sua presenza nello spazio museale e nell’immaginario globale”. Come questi oggetti “sono diventati il prodotto di relazioni storiche”, ora possono diventare “vettori di relazioni future”.

“Esistono musei subsahariani ma la loro integrazione nel tessuto culturale è più difficile. Non sono sentiti come spazi importanti” – Cecilia Pennacini

Di una simile apertura a nuovi significati, questa volta ambientata in Nuova Caledonia, si è occupato l’antropologo dell’Università Sapienza di Roma, Matteo Aria: “Negli anni Novanta, i responsabili kanak del centro culturale Jean-Marie Tjibaou di Numea avevano coniato l’espressione ‘oggetti ambasciatori’. Restituivano così ai propri oggetti vissuti a lungo lontano una nuova veste di ‘rappresentanti’ della cultura kanak nel mondo”. È uno dei modi in cui il protagonismo indigeno è riuscito ad “addomesticare e risemantizzare gli elementi del passato coloniale, creando delle nuove connessioni in grado di superare i conflitti e le rigidità delle appartenenze identitarie”. Secondo Aria, infatti, la restituzione di oggetti sottratti alle comunità durante il periodo coloniale “non sarebbe sufficiente a restituire dignità alle culture che sono state mutilate”, soprattutto se continua a iscriversi nella logica del possesso. La restituzione, dice, celerebbe una chiusura: “Una nuova costruzione identitaria in base alla quale, anziché condividere e facilitare lo scambio tra culture, si crea una nuova distanza”.

Secondo Pennacini, sarebbe positiva una restituzione di quei beni che sono stati davvero predati, facilitata anche dalle nuove possibilità di condivisione offerte, per esempio, dalla digitalizzazione e dalle nuove tecnologie. “Ma essendo questa una storia che abbiamo vissuto insieme e perché il patrimonio non sia disperso, è indispensabile che si porti avanti una riflessione insieme ai musei africani”. A partire, per esempio, da un confronto tra le diverse concezioni di patrimonio. Anche Sarr e Savoy, che nel rapporto suggeriscono un processo di restituzione in tre fasi -la consegna nel 2019 di alcuni pezzi “altamente simbolici a lungo reclamati”; l’inventario del patrimonio entro la fine del 2022; le successive traslocazioni-, chiedono di “lasciare a tutti gli attori il tempo di sviluppare un know-how comune” affinché la restituzione possa essere sostenibile.

Gli interlocutori giusti con cui avviare questa nuova cooperazione culturale ci sono, afferma Pennacini, che propone di organizzare un grande convegno con la partecipazione dei conservatori africani e ricorda che nel 2015 la 56esima Esposizione internazionale d’arte di Venezia è stata curata dal critico d’arte nigeriano Okwui Enwezor. Il titolo scelto allora per la Biennale era “All the World’s Futures”. Futuri che è necessario fondare su “una nuova etica relazionale” -come suggeriscono Sarr e Savoy- in un rapporto basato sul “riconoscimento della nostra reciproca interdipendenza e della natura fondamentalmente relazionale delle identità”, grazie alla quale “la condizione di libertà non è governata dalla storia, ma riscritta nel presente”.

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