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Diritti / Attualità

Il continente nero carbone: l’Africa nel mirino dei colossi minerari

Un’assemblea di protesta della comunità di Bagamoyo, il cui villaggio si trova accanto alla miniera di carbone

In Mozambico e Zimbabwe, l’economia estrattiva fossile e dei diamanti sta distruggendo il territorio e compromettendo la salute delle comunità locali. Che resistono, sostenute da un movimento internazionale

Tratto da Altreconomia 210 — Dicembre 2018

Il carbone ha cambiato in modo drastico la vita di Moatize, distretto rurale nella valle del fiume Zambesi, nel Mozambico settentrionale. La miniera infatti ha costretto migliaia di persone a lasciare tutto e andarsene. Duzeria, una degli sfollati, ricorda: “Il Governo ha detto che non potevamo restare là perché eravamo seduti su una montagna di soldi”. In effetti, al posto delle vecchie case ora c’è una gigantesca miniera a cielo aperto, una delle più grandi al mondo. Il Moatize Coal Project è un buon esempio di cosa significhi “economia estrattiva”, almeno per chi ci vive accanto. Il sito è in concessione alla Vale Moçambique -sussidiaria del gruppo brasiliano Vale sa- e occupa 23mila ettari di territorio. Nel 2008 la compagnia ha cominciato a costruire gli impianti; nel 2011 ha avviato l’estrazione. È allora che, per fare spazio alla miniera, oltre 1.300 famiglie sono state trasferite 36 chilometri più lontano. La compagnia aveva promesso risarcimenti, due ettari di terra per famiglia e aiuti alimentari per i primi anni, dice Duzeria. Ma nel nuovo villaggio gli sfollati hanno trovato solo file di case sulla terra polverosa: “Erano già piene di crepe, perché non hanno le fondamenta”.

Non che la vita prima fosse florida nei villaggi di Moatize. La comunità viveva di agricoltura e pesca in un’economia di sussistenza, ma poteva vendere i prodotti al mercato del capoluogo ed era vicino all’ufficio postale, alla scuola e al fiume. La nuova sistemazione invece è isolata, la terra inadatta all’agricoltura, il fiume non c’è e il mercato è lontano. Gli oleiros, fabbricanti di mattoni di argilla, hanno perso la materia prima e quindi la loro attività. “Le prime volte che abbiamo visitato la comunità sfollata, la polizia impediva perfino l’ingresso agli estranei”, spiega Erika Mendes, attivista di Justiça ambiental, gruppo mozambicano affiliato alla coalizione internazionale Friends of the Earth. In seguito, la compagnia ha offerto di ridipingere le case e mettere tetti di zinco. Ci sono state proteste, represse duramente. Il Governo ha offerto aiuti per ricostruire: “Ci hanno dato 300 meticais (circa 12 dollari, ndr) per stanza”, continua Duzeria: “Ma non bastano, solo trasportare la sabbia e i mattoni fino al nuovo villaggio costa di più”.

La miniera intanto è cresciuta: al primo scavo se n’è aggiunto un secondo, ancora più grande. La produzione è salita a 25mila tonnellate al giorno. Una miniera a cielo aperto è un grande buco in cui lavorano ruspe, uomini, nastri trasportatori e camion; intorno crescono montagne di carbone che poi verrà caricato su convogli di treni e la polvere nera vola ovunque. “Non ci avevano detto che avrebbero dato a Vale la terra agricola migliore”, aggiunge Fatima, che viene da uno dei villaggi di Moatize rimasti accanto alla miniera. Spiega che le esplosioni di dinamite fanno tremare le loro case, che minacciano di crollare; che la sua comunità respira polvere di carbone; che “non possiamo più usare la strada e non sappiamo come andare a raccogliere la legna”. Così, quando la compagnia ha fatto preparativi per aprire una terza miniera accanto alle prime due, la protesta è riesplosa. Il 4 ottobre gli abitanti di Bagamoyo, villaggio adiacente alla miniera, l’hanno invasa bloccando il lavoro, ma senza danneggiare i macchinari, precisa Fatima. L’invasione si è ripetuta in novembre; gli abitanti hanno bloccato la ferrovia per impedire il passaggio dei convogli di carbone. La polizia ha risposto con lacrimogeni, proiettili di gomma e anche veri. Ci sono stati parecchi feriti.

A metà novembre però la miniera era ancora bloccata. Nel tentativo di far rientrare le proteste, i dirigenti della compagnia  hanno promesso di annaffiare il carbone nei depositi perché voli meno polvere, o di aggiustare le case, ma ormai non basta. “Invece di difenderci, il Governo manda la polizia a picchiarci -dice Fatima-. La compagnia parla solo con il Governo, dice che gli ha già versato i risarcimenti: ma noi non vediamo nulla. Basta, vogliamo che la compagnia tratti direttamente con noi”. L’occasione per incontrare Duzeria, Fatima e alcune attiviste per la giustizia ambientale in Mozambico sono due eventi dello scorso novembre a Johannesburg: una sessione del Tribunale internazionale per i diritti dei popoli sul potere delle compagnie multinazionali -terzo e ultimo atto di una serie sull’industria estrattiva nell’Africa meridionale- e un “Social forum tematico” proprio sull’industria estrattiva che a metà novembre ha portato nella metropoli sudafricana centinaia di delegati di tre continenti rappresentanti di movimenti popolari, organizzazioni per la giustizia ambientale, chiese e sindacati rurali.

23 mila, gli ettari di terra occupati dal Moatize Coal Project nel nord del Mozambico. Per fare spazio al progetto minerario sono state sfollate 1.300 famiglie

Il caso della miniera di carbone di Vale Moçambique infatti non è isolato. L’Africa meridionale è disseminata di conflitti: comunità sfollate per fare posto a progetti minerari, abitanti in rivolta. Spesso le forze di sicurezza rispondono con violenza. “Assistiamo a una nuova corsa ad accaparrarsi le risorse dell’Africa, accompagnata da ogni sorta di violazione dei diritti fondamentali”, osserva Brian Ashley, direttore del Alternative Information and Development Centre (una delle forze sociali sudafricane che ha organizzato il Social forum). In questa corsa sono lanciate compagnie minerarie occidentali (Europa e Usa restano complessivamente i primi investitori in Africa), ma ormai anche le economie emergenti: brasiliane, indiane, cinesi e sudafricane. In questa competizione, gli Stati fanno a gara per offrire le condizioni migliori alle compagnie minerarie, mentre i costi sociali sono scaricati sulle comunità: “Gli stati africani badano più a proteggere gli investimenti che a garantire i diritti dei cittadini”, continua Ashley.

In Mozambico ad esempio, nella stessa Provincia dove lavora Vale troviamo l’indiana Jindal Africa, sussidiaria del gruppo Jindal Steel and Power, che dal 2013 ha in concessione una miniera a cielo aperto di carbone nel distretto di Marara. Anche qui la compagnia ha promesso nuove case, scuole, ambulatori e strade per poter raggiungere il mercato, ma poco è stato realizzato; invece, anche qui le autorità hanno mandato la “Forza di intervento rapido”, un corpo speciale di polizia, a reprimere le proteste. “Intorno alla miniera gli abitanti erano di fatto reclusi, con il divieto di ricevere estranei e circolare dopo l’imbrunire -dice Mendes-. È chiaro che la compagnia non vuole testimoni”.

40 i minatori “artigianali” uccisi negli ultimi due anni dai militari o dalle guardie delle compagnie minerarie in Zimbabwe

Gli attivisti di Justiça Ambiental hanno portato la questione al Tribunale amministrativo regionale e poi a quello nazionale, che l’estate scorsa ha pronunciato la prima sentenza favorevole ai cittadini coinvolti in un progetto minerario: afferma che i loro diritti fondamentali a risarcimenti e risistemazione sono stati violati sia dalla compagnia che dal Governo. Il silenzio avvolge anche Marange, in Zimbabwe, dove  nei primi anni 2000 è stato trovato un ricco giacimento di diamanti, teatro di conflitti di una brutalità estrema. È un giacimento alluvionale: le pietre sono nello strato superficiale del terreno, per lo più nel letto dei torrenti, e per estrarle possono bastare pale e setacci. Così fin dai primi anni 2000 ha attirato decine di migliaia di minatori in proprio, “artigianali”. Questi però sono sono considerati illegali, abusivi e quando il Governo ha cominciato a dare formali concessioni a compagnie minerarie è cominciata una sorta di guerra. Tra i difensori dei diritti umani, il nome Marange evoca il massacro compiuto dall’esercito nell’ottobre 2008, quando 214 minatori artigianali sono stati uccisi per piegare le loro proteste. Da allora la tensione continua a covare. Il Centre for Natural Resurces Governance, un centro per la difesa dei diritti umani, conta che almeno 40 minatori artigianali siano stati uccisi negli ultimi due anni dai militari o dalle guardie private delle compagnie minerarie. “Il partito al potere ha gestito le miniere di Marange nel proprio esclusivo interesse, ogni concessione è passata per via politica”, spiega Moses Mukwada.

Questo spiega l’estrema violenza esercitata dalle forze di sicurezza, nella totale impunità. Si parla di profitti miliardari e di un milione di carati sottratti alle casse dello Stato, “ma nessuno è mai stato perseguito”, spiega Mukwada. Nella zona diamantifera è quasi impossibile l’ingresso di visitatori esterni, spiega: le intimidazioni dei militari e delle guardie private sono continue. Inoltre l’inquinamento è impressionante: le compagnie minerarie scaricano nei fiumi i prodotti chimici usati per lavare i diamanti grezzi. E non c’è nessun investimento nello sviluppo locale, scuole, sanità o strade: i diamanti non hanno certo arricchito chi li estrae. Quello di Marange è un caso di militarizzazione estrema, che “illustra in modo brutale cosa possono fare le forze dell’industria estrattiva combinate a quelle dello Stato”, conclude l’attivista.


BOX. Il diritto “a dire di no”
Una campagna globale per il diritto “a dire di no” a miniere e progetti di estrazione delle risorse naturali è stata lanciata a conclusione di un “Social forum tematico” sulle miniere e l’economia estrattiva, riunito dal 12 al 15 novembre scorso a Johannesburg, in Sudafrica. Centinaia di delegati venuti dall’Africa, dalle Americhe e dall’Asia, rappresentanti di movimenti popolari, organizzazioni per la giustizia ambientale, chiese, sindacati rurali e rappresentanti di popoli indigeni hanno messo a fuoco quello che definiscono “un sistematico attacco” ai loro territori che, “attraverso l’espulsione dalla terra e la dislocazione forzata, la deforestazione, l’inquinamento e la contaminazione delle risorse idriche, minaccia di distruggere la vita delle comunità locali”, si legge nella dichiarazione finale del Forum.

La campagna per il “diritto a dire di no” è uno strumento per collegare e rafforzare movimenti sociali dove esistono, e per rivendicare che le legislazioni nazionali e i trattati internazionali riconoscano alle comunità direttamente coinvolte da miniere e grandi opere il diritto a scegliere un altro modello di sviluppo e impongano limiti al potere delle grandi aziende multinazionali. Per questo il Forum sostiene anche la campagna perché le Nazioni Unite approvino un Trattato su “Business e diritti umani”, che detti norme di condotta vincolanti per le grandi imprese.

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