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Adriatico, stop croato alle trivelle

La Croazia decide per una moratoria della ricerca di idrocarburi in mare. Nel 2014 c’era stata la liberalizzazione, che il nostro governo considerava una decisione da imitare. "Dato che tutto il mondo lo fa, non capisco perché dovremmo precluderci la possibilità di utilizzare queste risorse" ha detto il ministro Guidi. In Italia, intanto, si avvicina il referendum per le politiche di sfruttamento dei giacimenti entro i 12 chilometri della costa: dovrebbe tenersi tra il 15 aprile e il 12 giugno 2016  

Il sì al referendum sulle trivellazioni a mare, entro le 12 miglia marine dalla costa -espresso dalla Corte Costituzionale lo scorso 19 gennaio- ha inevitabilmente aperto una discussione tra chi è contrario e chi, invece, si dichiara favorevole (un approfondimento uscirà su Altreconomia 179, il numero di febbraio 2016). In attesa di conoscere la data in cui i cittadini saranno chiamati a votare, presumibilmente tra il 15 aprile e il 12 giugno 2016.
Con i grandi media che seguono la cronaca e gli sviluppi di una vicenda che va avanti da quasi 2 anni, tra ricorsi, modifiche costituzionali e piccoli dietro-front governativi. C’è una notizia che però non riesce a bucare la stampa nazionale, ovvero la momentanea rinuncia alla ricerca di idrocarburi da parte della Croazia. Siamo ovviamente in acque territoriale transnazionali, dall’altra parte dell’Adriatico. La “moratoria” annunciata ufficialmente in questi giorni dal primo ministro croato, Tihomir Orešković, rappresenta una notizia molto importante perché nel nostro Paese chi ha sostenuto e sostiene la politica del governo Renzi ha puntato alla Croazia come baluardo da difendere ed imitare.

Fu l’ex premier, Romano Prodi, nel corso di un’intervista rilasciata a Il Messaggero il 14 maggio 2014 a sostenere che “la gran parte di queste potenziali trivellazioni si trova lungo la linea di confine delle acque territoriali italiane, al di qua delle quali ogni attività di perforazione è bloccata. Si tratta di giacimenti che si estendono nelle acque territoriali di entrambi i paesi ma che, se non cambierà la nostra strategia, verranno sfruttati dalla sola Croazia.” Sulla stessa falsa riga l’attuale ministro allo Sviluppo economico, Federica Guidi, che ricordò prontamente che “per l’Adriatico è stato emanato nel 2013 (dal precedente ministro allo Sviluppo economico Flavio Zanonato, ndr) un decreto di rimodulazione delle aree marine aprendo nuovi spazi di ricerca. Abbiamo insomma disciplinato dove è possibile intervenire e dove no” […]; "dato che tutto il mondo lo fa, non capisco perché dovremmo precluderci la possibilità di utilizzare queste risorse”.



Breve cronistoria del dietro-front croato

Nell’aprile del 2014 l’allora ministro croato all’Economia, Ivan Vrdoljak,ufficializzò l’apertura di una vera e propria asta finalizzata all’assegnazione delle licenze per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi nella parte di mare prospiciente le coste del Paese. Sul piatto 29 licenze -sfruttabili in 25 anni-, suddivise in 8 aree individuate nell’Adriatico settentrionale e 21 nell’Adriatico centrale e meridionale, con dimensioni tra i mille e i 1.600 chilometri quadrati. La notizia destò non poca preoccupazione tra i rappresentanti dei consigli regionali di Abruzzo, Molise, Marche, Puglia e Veneto che in quel periodo chiedevano la sospensione delle attività di ricerca di greggio e gas in acque italiane. Lo stesso chiedevano a gran voce i comitati e le associazioni di Albania, Croazia, Montenegro, Slovenia e Italia aderenti al network “Sos Adriatico”.

La decisione della Croazia di “liberalizzare” le concessioni petrolifere -fino a quel momento nelle mani della compagnia nazionale Ina- fece intervenire anche la Commissione europea che rimarcava la necessità di implementare una nuova politica marittima per il mar Adriatico ed il mar Jonio, al fine di “preservare gli habitat marini e garantire lo sviluppo sostenibile”, nonché la promozione e la tutela del “turismo costiero e marittimo [per] creare nuovi posti di lavoro e nuove opportunità commerciali nel settore dell’acquacoltura, ridurre i rifiuti marini”. Da qui, la decisione da parte della Croazia -intrapresa già nell’ottobre del 2015- di sospendere il bando di gara per le concessioni nel mar Adriatico, appena sei mesi dopo l’annuncio della liberalizzazione. “La Croazia -dichiarò all’agenzia Ansa Llija Zelalic, delegato dell’Ambasciata in Croazia in Italia- per salvaguardare le sue coste ha sospeso i progetti per le piattaforme per la ricerca del petrolio nel mare Adriatico e penso che dovrete anche voi in Italia e sull’altra sponda del nostro mare prendere in considerazione questa eventualità. Questo é un grande pericolo […]". 

Consiglio che l’Italia non ha seguito, spingendo la questione sullo scontro, anche normativo, che ha portato al referendum. Né tanto meno lo farà il Montenegro che sul finire del 2015 ha avviato un piano di sfruttamento di 13 blocchi di mare antistanti la costa montenegrina.

Come denunciato in questi giorni da Coordinamento “No Ombrina”, Trivelle Zero Molise, Trivelle Zero Marche e Forum Italiano Movimenti per l’Acqua pubblica: le associazioni ricordano che “le norme comunitarie, in particolare l’articolo 7 della Direttiva 42/2001 e la Convenzione internazionale di Espoo (ratificata sia dall’Italia che dal Montenegro) obbligano gli Stati a sottoporre ad una procedura di tipo transfrontaliero, a partire dalla notifica nei confronti degli altri Stati potenzialmente interessati tutti i piani di attività che anche solo potenzialmente possono incidere sull’ambiente di altri Stati”.

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