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Economia / Opinioni

Per la ripresa l’accordo sul Recovery Fund da solo non basta. Ecco perché

© Martin Sanchez - Unsplash

L’accordo raggiunto a Bruxelles rappresenta per l’Italia un passaggio fondamentale ma è solo l’inizio. Il nostro Paese si trova in una situazione peggiore rispetto al 2011: dal debito ai dati critici dell’occupazione, fino all’esplosione della spesa pubblica. Che cosa occorre per ripartire. L’analisi di Alessandro Volpi

L’importante accordo sul Recovery Fund raggiunto a Bruxelles rappresenta per l’Italia un passaggio fondamentale: è evidente infatti che senza le risorse europee, ma soprattutto senza la fiducia da parte dell’intera Unione europea, sarebbe stato davvero difficile per il nostro Paese affrontare la crisi più grave di sempre. Tuttavia è bene avere chiari alcuni punti che servono a rimarcare come l’accordo costituisca un passo fondamentale verso la ripresa ma non è certo, da solo, sufficiente a risolvere i nodi cruciali del ritardo.

L’Italia si trova in questo momento in una situazione assai peggiore di quella del 2011 per varie ragioni. In primo luogo, nel periodo 2008-2010, il peso del debito pubblico italiano sul Pil è cresciuto di 14,4 punti percentuali, dal 103,6% al 119%, contro i circa 18 punti di Germania e Francia e i 19 punti della media dell’Unione europea; l’indebitamento dunque, in quella fase, è aumentato meno rispetto al resto dell’Europa. Negli anni successivi l’avanzo primario, la differenza fra le entrate e le uscite, al netto degli interessi, si è rafforzato, passando dal -0,9% del 2009, unico anno in cui i conti italiani hanno registrato un disavanzo primario, al +2% del 2015. Questa tendenza è proseguita, sia pur riducendosi, fino al 2019. Inoltre dal 2008 al 2018 il peso degli interessi sul debito si è contratto in maniera significativa, grazie all’azione decisiva della Banca centrale europea, con una media del 4,38% del Pil rispetto al 6,64% del periodo 1995-2007. L’insieme di questi elementi ha impedito che il rapporto debito-Pil diventasse nel caso italiano insostenibile e soprattutto non si discostasse troppo da quello delle principali realtà europee. La media nel periodo 2008-2016 è stata per l’Italia del 118,1%, a fronte dell’83,4% della Francia e del 74% della Germania.

Il vero problema è stato rappresentato dalla bassa crescita che ha conosciuto tassi inferiori ai tassi di interesse, nonostante il forte calo di questi ultimi. In altre parole, la stagnazione italiana ha aggravato il debito senza farlo deflagrare per il contenimento della spesa pubblica, in particolare degli interessi, e la tenuta delle entrate.

Dopo la crisi Covid-19, il quadro è radicalmente cambiato. Senza entrare nel merito della bontà o meno delle politiche economiche seguite fino al febbraio del 2020 e limitando l’analisi ai soli dati numerici, risulta palese l’esplosione della spesa pubblica corrente extradeficit, al di fuori dei parametri europei, che nel frattempo sono stati sospesi. Nel 2020 il bilancio italiano registrerà un disavanzo significativo e un rapporto deficit-Pil ben oltre l’11%. È necessario così un ampio ricorso al collocamento di nuovo debito, che porterà il suo rapporto con il Pil ad oltre il 160%, e la spesa sociale appare realmente fuori controllo: solo gli ammortizzatori sociali per la cassa integrazione significano un esborso di circa cinque miliardi di euro al mese. Si è ridotta, al contempo, la base imponibile per almeno 80 miliardi di euro e le stime di caduta del Pil valutano una perdita di oltre 11-12 punti percentuali. Tale caduta avviene, peraltro, in una fase di forte deflazione che corrode il Prodotto interno lordo nominale, rendendo ancora più pesante il rapporto tra debito e Pil.

A questi dati assai critici se ne potrebbero aggiungere numerosi altri, in particolare quelli legati all’occupazione. Applicando una metodologia per molti versi credibile, si valuta che per ogni punto di Pil perso si determina una riduzione dello 0,5% delle ore lavorate; ciò significherebbe nel caso italiano che a un crollo di 10 punti di Pil si abbinerebbe la perdita del 5% delle ore lavorate. Si tratta di un dato impressionante in un Paese dove attualmente, proprio per effetto del Covid-19, il numero degli inattivi e dei pensionati supera quello degli occupati. In questo senso l’Italia appare sempre più un Paese in cui una parte limitata della popolazione sorregge l’intera struttura dello Stato; sono troppo pochi gli occupati e sono troppo pochi coloro che pagano le tasse, considerando che l’Irpef, il principale cespite di entrata statale, è versato da meno del 40% della base imponibile.

Oltre a questi numeri “interni”, ad aggravare il quadro si pongono vari elementi esterni. Senza considerare il decisivo arretramento dell’economia mondiale, è sufficiente citare qui la maggiore concorrenza che i titoli di Stato di altre economie più forti faranno a quelli italiani: nel 2020 infatti il debito spagnolo ha raggiunto il 115% del Pil, quello francese il 116, e la media Ue ha superato il 102%. Dunque ci saranno tanti competitor per l’enorme debito italiano che, nel frattempo, ha allargato le proprie distanze dagli altri debiti di oltre 10-15 percentuali in pochissimi mesi. Come accennato in apertura, senza l’accordo europeo e il clima ad esso connesso, tutti questi problemi non sarebbero stati in alcun modo risolvibili; non certo sperando che il risparmio italiano si trasformasse in acquirente del debito pubblico per 2.500-3.000 miliardi di euro e neppure immaginando mirabolanti riforme fiscali. L’accordo, tuttavia, non basta all’Italia; servono almeno due ulteriori condizioni. La prima, ovvia, è quella di spendere bene tutte le risorse provenienti dall’Europa che, di fatto, per sei anni raddoppieranno la mole degli investimenti pubblici del nostro Paese. La seconda, ancora più importante, è rappresentata dal fatto che il processo di integrazione europea avviato a Bruxelles continui con un’azione convinta della Bce di acquisto del debito e con un sistema fiscale condiviso. In altre parole, l’accordo deve essere l’inizio e non certo la fine di un percorso.

Università di Pisa

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