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Diritti / Attualità

Abusi delle forze dell’ordine: nessuno stupore, solo tabù

Da Piacenza a Torino, carabinieri e agenti finiscono di nuovo sotto la lente della magistratura. Emergono abusi gravissimi e deficit strutturali. In Italia non esiste però una vera discussione pubblica, aperta, informata, libera sul loro operato. Eppure dovremmo cominciare a parlarne. Il commento di Lorenzo Guadagnucci

Agenti penitenziari indagati a Torino per tortura, carabinieri arrestati a Piacenza per aver costituito in caserma una banda “gomorrista”, com’è stata definita.
Scioccano, queste notizie, perché campeggiano nelle cronache negli stessi giorni e quindi si sovrappongono, ma non possono sorprendere. Troppi sono i precedenti, recenti e remoti. Qualcuno ha forse dimenticato le torture nel carcere di Asti e in quello di Sassari, passati per i tribunali e finiti alla Corte europea per i diritti umani di Strasburgo? O il caso della caserma di Aulla in Lunigiana, con i carabinieri sotto inchiesta per una lunga serie di abusi denunciati da numerose vittime? O i falsi e i depistaggi che hanno accompagnato la vicenda dell’omicidio di Stefano Cucchi? E vogliamo parlare del G8 di Genova? Delle torture nella caserma di Bolzaneto, di quelle alla scuola Diaz, dei falsi, delle menzogne, delle protezioni assicurate ai responsabili?

No, non possiamo sorprenderci se le forze dell’ordine finiscono sotto la lente della magistratura, per il semplice motivo che l’abuso di potere, la tortura, la tentazione di arricchirsi abusando del ruolo conferito dalla divisa sono una minaccia incombente per simili istituzioni. È così in tutto il mondo. E in tutto il mondo, almeno nei regimi democratici, lo sforzo è teso a contenere i rischi, a mantenere alta la vigilanza, a individuare i migliori strumenti di prevenzione e quelli più efficaci di repressione. L’Italia, sotto questo profilo, ha uno specifico problema: il tema è considerato un tabù. Non esiste una discussione pubblica, aperta, informata, libera sull’operato delle forze dell’ordine. Lo si vede anche in queste ore.
C’è chi parla di mele marce, chi si premura di mettere in luce la lealtà della grande maggioranza degli agenti, chi interviene per ribadire la fiducia dei cittadini negli apparati. Dovremmo invece parlare soprattutto delle mancanze strutturali evidenziate in questi anni.

Le nostre forze dell’ordine hanno una tradizione autoreferenziale: teorizzano e praticano la prassi di lavare i panni sporchi in casa, sono insofferenti verso i controlli esterni, hanno spesso mostrato un’inquietante tendenza a mentire e a non collaborare con la magistratura. La vicenda Cucchi insegna ma non è sola ed è impossibile ignorare la lezione del G8 di Genova, con i suoi clamorosi abusi e l’altrettanto plateale negazione delle proprie responsabilità da parte di tutte le persone in divisa coinvolte, dagli autori materiali ai testimoni alle catene di comando. La consegna dell’omertà è stata osservata quasi senza eccezioni. Basti citare un passaggio della sentenza della Corte europea per i diritti umani sul caso Diaz, laddove si stigmatizza la condotta dei vertici di polizia per avere “ostacolato impunemente” l’azione della magistratura. Non solo si è ostacolato la magistratura, ma una volta scoperti non c’è stata punizione.

È noto, nel mondo, quali sono gli strumenti più adatti per prevenire gli abusi di potere nei corpi di polizia. Ne citiamo alcuni. La trasparenza: quanto avviene nelle caserme, gli abusi che vi sono eventualmente commessi, devono essere conosciuti e riconosciuti, perciò può essere utile che vi siano autorità indipendenti -esterne agli apparati- incaricate di raccogliere le denunce e avviare indagini interne, anche a prescindere dall’azione della magistratura.
Gli agenti messi sotto inchiesta dalla magistratura devono essere immediatamente sospesi dal servizio, a tutela della credibilità del corpo e a garanzia dei cittadini: in Italia non è una prassi, ma una decisione presa volta per volta, accade per esempio a Piacenza in questi giorni (non solo per gli arrestati), ma non è accaduto in altre pur clamorose vicende, vedi l’inchiesta e il processo Diaz, con i funzionari rimasti sempre al loro posto, in qualche caso addirittura promossi, e infine anche reintegrati in servizio nonostante la giurisprudenza della Corte europea preveda la destituzione in caso di condanna per trattamenti inumani e degradanti e tortura. È bene dirlo chiaramente: sono cattivi esempi venuti dall’alto che hanno un enorme impatto sulla “cultura” e sulle attitudini di chi lavora nei corpi di polizia.

La tentazione dell’omertà e della chiusura corporativa viene combattuta nel mondo -non in Italia- con numerosi altri strumenti, come l’utilizzo di codici di riconoscimento sulle divise, la completa smilitarizzazione degli apparati (in Italia i carabinieri fanno parte delle forze armate e la polizia ha conosciuto un’involuzione neomilitare nonostante la riforma del 1982, a partire dalle regole di reclutamento), l’apertura alla sindacalizzazione, la creazione di osservatori sulle denunce e le condanne a carico degli agenti in servizio, l’istituzione di canali permanenti di dialogo con la società civile.

Sono misure che vanno tutte nella stessa direzione: apertura alla società, lotta al corporativismo e a quella cultura autoritaria che costituisce il background delle forze di polizia in quei Paesi -in Europa molti, e il nostro è tra questi- arrivati con ritardo alla democrazia. In Italia è difficile parlare di questi temi. Lo si è visto nel dibattito degli anni scorsi attorno alla legge sulla tortura.
Le forze dell’ordine -nella base, nei sindacati, nei vertici istituzionali- hanno vissuto con insofferenza l’avanzare dei progetti di legge, rimasti nei cassetti per decenni e venuti infine alla luce solo per l’enormità delle condanne subite dall’Italia a Strasburgo nei procedimenti Diaz e Bolzaneto. La discussione della legge è stata difficile e a tratti penosa, con un ostruzionismo attivo e palese da parte degli apparati. Chi chiedeva di introdurre una legge sulla tortura identica alla definizione accettata (anche dall’Italia) in sede di Nazioni Unite, è stato additato come nemico delle forze di polizia. I maggiori partiti politici hanno fatto propria questa distorsione del dibattito e alla fine è stato approvato un testo così contorto e così ambiguo che il Comitato dell’Onu per la prevenzione della tortura ha chiesto al Parlamento di cambiare la legge (appena sei mesi dopo la sua approvazione).

Oggi che le vicende di Torino e Piacenza portano alla ribalta gravissimi abusi di potere e i deficit strutturali dei nostri apparati, sarebbe il momento di aprire una discussione franca e di mettere all’ordine del giorno qualche serio progetto di riforma. Negli Stati Uniti, nel pieno delle proteste del movimento Black Lives Matter qualcuno ha proposto di togliere finanziamenti e addirittura sciogliere i corpi di polizia inaffidabili; senza arrivare a tanto, e nell’enorme differenza delle nostre strutture rispetto agli Stati Uniti, potremmo cominciare a discutere di smilitarizzazione dei carabinieri, di una nuova riforma democratica della polizia, dell’introduzione di un organismo indipendente di controllo sulle denunce di abusi; potremmo insomma cominciare a parlare, liberamente e senza tabù, delle forze dell’ordine come parte della società civile.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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