Ambiente / Attualità
A Vicenza sta per concludersi un processo penale che farà notizia o almeno dovrebbe

Il 26 giugno è attesa la sentenza sul caso della Miteni, lo stabilimento di Trissino all’origine della più ampia contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) registrata finora in Europa. È anche il primo caso del genere ad arrivare a un esito giudiziario. “Una bomba atomica innescata che ha inquinato l’ambiente, avvelenato l’acqua e causato un disastro con gravi effetti sulla popolazione”, ha concluso la Procura, chiedendo condanne per 121 anni complessivi
Gli imputati sono quindici, manager aziendali e i dirigenti di Mitsubishi Corporation e del fondo di investimento International chemical investors group (Icig): sono accusati a vario titolo di disastro innominato, avvelenamento di acque con l’aggravante del dolo, inquinamento ambientale e bancarotta. Il gruppo giapponese ha avuto la proprietà della Miteni dal 1998 (e già prima in consorzio con Enimont) fino al 2009, quando l’ha ceduta a Icig Italia 3 holding, filiale della Icig con sede in Lussemburgo, per la “strepitosa” somma di un euro.
Lo stabilimento Miteni, ai piedi delle Prealpi venete, ha prodotto composti fluorurati da quando è nato nel 1965 (allora era Rimar, “Ricerche Marzotto”) fino al fallimento nel 2018. Per decenni ha scaricato reflui nel terreno nello stabilimento e nel torrente che lo costeggia; le sostanze tossiche sono percolate nella falda idrica sottostante, da cui attingono gli acquedotti che servono una popolazione di 350mila persone tra le province di Vicenza, Verona e Padova. È un caso di contaminazione di massa venuto alla luce nel 2013, grazie a uno studio dell’Istituto di ricerca sulle acque (Irsa) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) nell’ambito di un’indagine europea: dove il bacino del Brenta risultava pesantemente contaminato da Pfos e Pfoa, i perfluoroalchilici allora più usati, e la fonte fu individuata nella Miteni.
Il processo Miteni è cominciato nel luglio 2021: sarà durato quattro anni. Le parti civili sono oltre 300, tra cui associazioni di cittadini come le “Mamme No Pfas”, Medicina democratica, Legambiente e Greenpeace, e poi la Cgil, numerosi amministratori locali e le società degli acquedotti (che hanno dovuto installare filtri o cercare nuove fonti per limitare la contaminazione dell’acqua).
In oltre 130 udienze, dunque, il tribunale e il pubblico hanno ascoltato decine di testimoni dell’accusa, della difesa e delle parti civili; scienziati, medici, genitori di bambini con il sangue saturo di Pfas, responsabili aziendali, dirigenti sanitari e degli enti pubblici di controllo.
Insieme hanno delineato un quadro sconcertante. Per cominciare, l’azienda era a conoscenza dell’inquinamento fin dagli anni Novanta. Lo ha confermato il maresciallo Manuel Tagliaferri del Nucleo operativo ecologico (Noe) dei Carabinieri di Treviso, che ha svolto indagini sulla Miteni su richiesta della Procura di Vicenza. È il Noe che durante le sue perquisizioni ha trovato le relazioni di indagini ambientali che la Mitsubishi aveva commissionato fin dal 1994 nel sito industriale. Così emerge che fin da allora la proprietà sapeva che il terreno sotto lo stabilimento era intriso di inquinanti; che le prime barriere idrauliche installate nel 2004 non erano efficaci; che lo stabilimento continuava a disperdere Pfas e altre sostanze pericolose per la salute pubblica. La Miteni non comunicò agli enti di controllo (l’Agenzia veneta di protezione ambientale, Arpav) i dati in suo possesso. Tra l’altro risulta che fin dal 2011 ha prodotto su commissione della Solvay il C6O4 (uno dei composti perfluoroalchilici che hanno sostituito i “vecchi” Pfoa e Pfos), anche se la produzione ufficiale è partita solo due anni dopo.
L’indagine del Noe è uno degli elementi portanti dell’accusa ed è citata in nella relazione della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, detta Ecomafie.
Ancora: in aula alcune madri hanno ricordato lo shock quando nel 2017 hanno appreso che i loro figli adolescenti avevano nel sangue valori di Pfoa o Pfos parecchie volte superiori alla soglia considerata di pericolo. Era il risultato del biomonitoraggio avviato dalla Asl di Vicenza sui residenti nella zona “rossa”, quella più esposta alla contaminazione, Lonigo e altri Comuni a Sud del capoluogo. Fino ad allora nessuno, hanno testimoniato quelle madri, aveva detto loro che l’acqua del rubinetto era un rischio per la salute.
Nel 2023 l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc, istituto di riferimento dell’Organizzazione mondiale della sanità), ha classificato il Pfoa come cancerogeno, in particolare per il tumore al rene e al testicolo. Prima era catalogato tra le sostanze “possibilmente” cancerogene, come anche il Pfos (ma “possibilmente” non significa che non vi sia un pericolo anche se le ricerche scientifiche non sono ancora conclusive).
I Pfas inoltre sono legati ad altre patologie ormai documentate, e sono interferenti endocrini (interferiscono con lo sviluppo ormonale, quindi con la crescita). Diversi testimoni hanno raccontato di bimbi nati sottopeso, casi di malattie funzionali della tiroide, ritardi della crescita, malattie che numerosi studi collegano ai Pfas e alla trasmissione dalle madri ai figli.
Francesca Russo, dirigente del dipartimento per la prevenzione e sicurezza alimentare della Regione Veneto, ha testimoniato che nella “zona rossa” la mortalità e la prevalenza di cardiopatie, diabete e patologie cerebrovascolari è nettamente più alta che in zone vicine simili per le condizioni generali della popolazione. Annibale Biggeri, epidemiologo dell’Università di Padova, ha confermato l’aumento di mortalità per malattie cardiovascolari e per i tumori del rene e del testicolo, proprio nelle zone e nei periodi in cui le persone sono state più esposte.
Un altro momento importante del processo è stata, nel luglio 2023, la deposizione di Pietro Comba, allora responsabile del Dipartimento di epidemiologia sociale e ambientale dell’Istituto superiore di sanità (Iss). Ha spiegato che nel 2017 l’Iss aveva preparato su richiesta della Regione Veneto un accordo di collaborazione per una indagine epidemiologica nelle zone colpite. Era una ricerca disposta con delibera regionale del maggio 2016, e il progetto era pronto: uno studio su tre anni, basato sull’analisi dei dati ambientali e dei dati sanitari individuali, per studiare l’incidenza del rischio a cui è esposta la popolazione e la possibile correlazione tra l’esposizione a Pfas e l’insorgere di tumori e altre patologie. L’Istituto aveva stanziato 252mila euro. Poi però la regione Veneto non ha sottoscritto l’accordo, ha precisato in aula Pietro Comba. Non è mai stata data una ragione.
Una spiegazione è emersa più tardi, nell’ottobre 2023, quando l’allora consigliera regionale Cristina Guarda ha ripreso le dichiarazioni di Comba in un’interrogazione regionale. La risposta è sconcertante: l’indagine rimase in sospeso “per approfondimenti di natura economico-finanziaria”, ha dichiarato l’assessora alla sanità Manuela Lanzarin.
La difesa ha puntato su alcuni argomenti chiave. Primo, che ha rispettato le leggi vigenti. Secondo i difensori dei dirigenti Mitsubishi, la Miteni avrebbe addirittura ridotto gli impatti ambientali rispetto alla proprietà precedente (la Rimar Marzotto). Luigi Guarracino, già direttore generale e amministratore delegato Miteni tra il 2009 e il 2012 (durante la proprietà Icig), e l’unico dei 15 imputati a presentarsi in aula, ha sostenuto di aver applicato tutte le regole.
I legali del vertice Icig inoltre hanno insistito che fino al 2013 non c’erano prove scientifiche di pericolo per gli umani. In ogni caso, sostengono le difese, non c’erano normative specifiche sui Pfas. Non c’erano in effetti nella legislazione italiana. Ma già nel 2006 una Direttiva europea aveva classificato il Pfos come sostanza persistente, con elevata tendenza al bioaccumulo e molto tossica, qualificabile come uno dei “composti organici persistenti” banditi dalla Convenzione di Stoccolma. In aula è stato obiettato che l’azienda era comunque responsabile di prevenire l’inquinamento, e invece quegli impianti erano un colabrodo, come segnalavano proprio le consulenze ambientali chieste dalla proprietà.
“Sapevano tutto, nascosero la verità e continuarono a produrre”, ha riassunto il pubblico ministero Hans Roderich Blattner nella sua requisitoria finale. I vertici giapponesi, quando una nuova perizia ambientale stimò che bonificare il sito industriale sarebbe costato almeno 17 milioni di euro, “decisero di regalarla”. Anche Icig era consapevole dell’inquinamento, secondo l’accusa: tanto che comprò lo stabilimento per un euro, e il venditore Mitsubishi escludeva espressamente ogni garanzia circa le criticità ambientali, lo conferma la relazione del Noe.
La Miteni “era una bomba atomica innescata che ha inquinato l’ambiente, avvelenato l’acqua e causato un disastro con gravi effetti sulla popolazione”, ha dichiarato il Pm Blattner nella sua requisitoria finale. È stato un “comportamento doloso e criminale”, ha sottolineato il suo collega Paolo Fietta, che ha insistito sul dolo.
In definitiva, i Pm hanno chiesto l’assoluzione per sei imputati, quelli in posizioni subordinate che non avevano voce nelle decisioni di spesa della Miteni. Hanno invece chiesto condanne per 121 anni complessivi per gli altri nove: le più alte per i vertici di Icig e di Mitsubishi (fino a 17 e 16 anni di reclusione). Ormai la parola è ai giudici: la sentenza è attesa, appunto, per il 26 giugno.
Intanto una separata causa civile riapre il capitolo della salute dei lavoratori della Miteni. Un mese fa il tribunale di Vicenza ha condannato l’Inail a risarcire i familiari di un lavorate della Miteni, Pasqualino Zenere, deceduto per un tumore. Ovvero, una sentenza riconosce un nesso causale tra quel tumore e la sua decennale esposizione ai Pfas. Giampaolo Zanna, già segretario della Camera del lavoro di Vicenza (oggi nel direttivo regionale della Cgil), spera che sia un precedente. “Da anni diciamo tutelare il lavoro e la salute. Ma la salute viene prima”.
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