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Ambiente / Opinioni

A rischio il patrimonio delle banche delle sementi

© Agustin Osmyndun -Unsplash

La riduzione delle risorse pubbliche compromette la sopravvivenza delle strutture che conservano diversità poco conosciute. Terza parte. La rubrica della “Rete Semi Rurali” a cura di Riccardo Bocci

Tratto da Altreconomia 228 — Luglio/Agosto 2020

Nella rubrica scorsa abbiamo descritto le Case delle sementi, nuove realtà sociali che svolgono un ruolo chiave per avere accesso a quella biodiversità espulsa dal mercato sementiero. A monte esistono le “banche delle sementi” o del germoplasma: strutture pubbliche deputate alla conservazione delle diversità, poco conosciute. Infatti, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, quando le varietà locali sono state progressivamente sostituite da quelle moderne, università e centri di ricerca agricola hanno cominciato a raccogliere le sementi che sparivano dai campi e dalla memoria dei contadini. Nacque così quella che chiamiamo conservazione ex-situ perché fatta in frigoriferi fuori dall’areale di coltivazione.

Ma come fare ad avere accesso a queste sementi? Di chi sono? Esiste un trattato internazionale negoziato all’interno della FAO che si occupa del sistema di regole per facilitare l’accesso a queste varietà rimaste congelate nel passato: sono di pubblico dominio, quindi non privatizzabili tal quali; gli agricoltori possono richiederle per uso diretto o come base di partenza per lavori di miglioramento genetico; non si paga per averle (salvo in alcuni casi i costi di spedizione) e in cambio si firma il cosiddetto accordo standard di trasferimento materiale. Tutto a posto penserete. In realtà no.

56.000 sono i campioni di sementi conservati presso la banca del CNR di Bari

Questo patrimonio è pericolosamente a rischio perché negli ultimi anni le banche pubbliche stanno perdendo d’interesse per il modello agricolo industriale: la ricerca privata ha le sue collezioni varietali (cui non si può accedere) e il processo di de-materializzazione dell’informazione genetica (che ha nella biologia sintetica la sua sirena più ammaliante) ha sempre meno bisogno delle risorse fisiche (o si illude di averne) per produrre innovazione. Il risultato è la riduzione delle risorse pubbliche per queste strutture e lo spaesamento di chi ci lavora: non sono più cinghia di trasmissione del settore privato ma ancora non hanno acquisito un nuovo ruolo all’interno della società.

L’Italia è un caso emblematico da questo punto di vista. La più grande banca pubblica, gestita dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) a Bari, è stata chiusa per vari anni, invischiata in una serie di cause legali tra direttori. Ciò ha rischiato di compromettere tutto il materiale conservato e, comunque, ha impedito la sua funzione primaria di garantire l’accesso al materiale conservato per oltre un decennio. Sorte più triste sta toccando all’Istituto Nazareno Strampelli di Lonigo in Veneto. Dopo aver raccolto gran parte della diversità di mais e frumento della Regione e aver riportato alcune di queste varietà in coltivazione, è stato quasi cancellato con un colpo di penna: personale spostato ad altri servizi, struttura chiusa, sementi nei congelatori finché qualcuno non staccherà la spina. Il tutto è avvenuto e avviene nel silenzio assordante della politica e dei media, anche quelli sempre pronti a fare comunicati sull’importanza del cibo made in Italy.

È venuto il momento di lanciare una sfida a questo sistema in crisi e di assumerci da cittadini la responsabilità di un patrimonio che è nostro nello stesso modo in cui lo è un’opera d’arte o un monumento. Case e banche delle sementi devono pensare insieme un’ambiziosa alleanza, tra enti pubblici e reti sociali, per far uscire le sementi dai frigoriferi e rimettere in gioco la creatività degli agricoltori e i processi evolutivi nei campi. Prima che sia troppo tardi.

Riccardo Bocci è agronomo. Dal 2014 è direttore tecnico della Rete Semi Rurali, rete di associazioni attive nella gestione dinamica della biodiversità agricola

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