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A chi serve il Senato

Arriva in Commissione Affari costituzionali il disegno di legge Renzi-Boschi di riforma del Senato. Oltre alla composizione, il punto centrale è il potere di controllo della Camera alta sull’attività del Governo. Che è regola condivisa per la maggior parte dei Paesi del G20 e che l’esecutivo attuale, però, vuole depotenziare. L’anticipazione dal numero di maggio di Altreconomia

Tratto da Altreconomia 160 — Maggio 2014

Da secondo ramo parlamentare a primo ostacolo da superare. È il destino del Senato della Repubblica, istituito come garanzia democratica e oggi presentato da chi vuole riformarlo come orpello burocratico.
Eppure, tutti i Paesi del G8 sono bicamerali: Canada, Francia, Italia, Germania, Giappone, Regno Unito, Russia e Stati Uniti (che nel Congresso vede stringersi Camera dei rappresentanti e Senato), e per tutti il Senato è organismo di controllo sull’esecutivo. Anche la maggioranza dei Paesi del G20 ha due camere: quelli del G8, cui si sommano Argentina, Australia, Brasile, India, Messico e Sud Africa. Sono monocamerali invece l’Arabia Saudita, la Cina, la Corea del Sud, l’Indonesia e la Turchia. Cui si aggiungono, fuori dal G20, Bangladesh, Indonesia, Iran, Iraq, Corea del Sud, Tanzania, Ucraina, Uganda e Vietnam. In Europa hanno invece abbandonato le due camere Estonia, Croazia, Ungheria, Portogallo, Danimarca, Grecia e Svezia.

Anche se non esiste un modello di Senato-tipo, è possibile elencare tre caratteristiche prevalenti nei modelli europei, che giustificano e danno conto dell’importanza di avere due camere: è vero che i Senati sono estranei al rapporto di fiducia (demandato a Camera ed esecutivo), risultando di norma espressione delle entità territoriali (si pensi al caso tedesco del Bundesrat), ma agiscono come strumento di equilibrio, di controllo e di riflessione nei confronti della Camera bassa, che è espressione della maggioranza di governo.
L’esistenza di un Senato, e dunque di un Parlamento, risponde a quel principio per il quale non tutto è delegato (o delegabile) a chi prende il comando. Secondo il professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università statale di Milano Vittorio Angiolini la sua introduzione rispondeva a una “cautela nei confronti della democrazia”. Cautela che si sarebbe dovuta accompagnare a due caratteristiche fondamentali: che il Senato fosse nettamente diverso rispetto alla Camera dei deputati, sia per forma sia per funzioni. E non c’è dubbio, come osserva Angiolini, che “l’assemblea costituente non riuscì in questo intento. E tutto ciò, anche a seguito delle riforme elettorali successive al 1993, ma soprattutto con la legge elettorale del 2005, ha portato ad avere due Camere che fanno le stesse cose e tuttavia sono composte nello stesso modo. Ciò complica il procedimento di legislazione, che è disfunzionale data l’identica composizione dei due rami. Questa forma di bicameralismo perfetto (stesse funzioni, stesse composizioni) si giustifica soltanto con l’esigenza di moltiplicare il personale dei partiti, e non c’è dubbio che una riforma sia necessaria. Si tratta di capire quale”.

Tra le proposte sul tavolo c’è quella dell’esecutivo guidato da Matteo Renzi, secondo cui quel che bisogna fare è dire “stop al ping pong del bicameralismo perfetto” (lo ha detto l’11 aprile, parafrasando a modo suo Luigi Einaudi: “La lentezza parlamentare è la virtù capace di limitare gli eccessi normativi”). L’immagine di un Parlamento elefantiaco per dimensione e agilità, e schiacciato da due Camere sovrapponibili (perché identiche), è antica (“Se la seconda camera concorda con la prima, è inutile; se è in disaccordo è dannosa”, l’analisi del giacobino Emmanuel Joseph Sieyès), ma se cucita addosso al nostro Paese piuttosto impropria. Per averne prova è sufficiente analizzare dinamica e qualità della produzione legislativa degli ultimi vent’anni. Dal 1996 a oggi [Ae va in stampa il 17 aprile] le leggi approvate dal Parlamento, considerando tutte le legislature compreso l’esecutivo “Renzi I”, sono state 2.137. Di queste, 1.677 -e cioè il 78,4%- ricadono nella categoria intitolata “iniziativa governativa”. Una sola è la legge di “iniziativa popolare” (0,04%), due quelle ad “iniziativa regionale” e 457 quelle di “iniziativa parlamentare” (21,3%). Restringendo il campo alle ultime due legislature, poi, si nota il netto incremento del “peso” dell’esecutivo rispetto all’iniziativa legislativa complessiva. Nella XVI (2008-2013) su 100 leggi approvate 76 erano di istanza governativa. Oggi (XVII legislatura, dal 15 marzo 2013) siamo all’88%. “C’è un meccanismo di approvazione bicamerale delle leggi che effettivamente dà luogo ad inceppamenti -riconosce il professor Angiolini- e poi c’è un tema, che è diverso, che è quello dei rapporti tra il Parlamento e il Governo. In Italia c’è un difetto culturale nell’affrontare il problema: i dati dipendono dal fatto che il Governo svolge la legislazione, contrariamente a quello che dice la Costituzione, quindi non in ‘via eccezionale’ ma in via ordinaria. Cioè se ne appropria, non solo attraverso leggi delegate ma anche attraverso lo strumento del decreto legge, che viene usato in modo assolutamente abnorme per scavalcare le difficoltà del governo a tenere insieme la sua maggioranza parlamentare. Questo effettivamente non ha riscontri in altri ordinamenti ed è gravemente disfunzionale”. Quella descritta da Angiolini è una “appropriazione” che si aggrava sempre più. Perché non è soltanto la quantità delle norme a segnare lo scavalcamento parlamentare, quanto anche la rapidità della loro approvazione. Se una legge di matrice governativa doveva attendere 271 giorni per essere approvata nella XIII legislatura (1996-2001), oggi procede spedita nel solco di quel fenomeno che il senatore Walter Tocci ha definito “futurismo legislativo”, impiegando meno di due mesi (55 giorni). Ma agli occhi del Governo l’ostacolo è (rimasto) il Parlamento e la sua attuale natura bicamerale, che secondo la relazione al ddl costituzionale Renzi-Boschi “ha sinora impedito il pieno dispiegarsi delle straordinarie potenzialità del Paese”.

Il progetto dell’esecutivo Renzi prevede perciò una Camera dei deputati che, mantenendo l’attuale organico di 630 componenti eletti, concentri su di sé la funzione di indirizzo politico, quella legislativa, quella di inchiesta parlamentare, quella di controllo sull’operato dell’esecutivo nonché l’espressione di fiducia. I membri del nuovo “Senato delle autonomie” -148 in totale nella proposta, non più eletti direttamente dai cittadini e senz’alcuna indennità- saranno i presidenti di Regione (compresi quelle delle Province autonome), i sindaci dei Comuni capoluogo di Regione (e Province autonome), due membri dei consigli regionali eletti all’interno dei consigli stessi e altri due sindaci per ogni Regione e 21 cittadini illustri nominati direttamente dal Presidente della Repubblica (“Non si capisce il perché di questo inserimento, che francamente -riflette Angiolini- riecheggia il Senato regio”, cui va aggiunta peraltro l’analogia con la “proposta Gelli” contenuta nel Piano di rinascita democratica, che voleva aumentare a 25 i senatori di nomina quirinalizia). A questi si aggiungono infine gli ex presidenti della Repubblica e i senatori a vita.

Il procedimento legislativo -che come visto è già oggi sbilanciato verso il Governo- dovrà rispettare un calendario dalle tappe forzate. Salvo per le leggi di revisione costituzionale o altre leggi costituzionali -dove la funzione legislativa resta “esercitata collettivamente”- ogni altro disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati seguirà un iter della durata di due mesi: il Senato -composto da personale politico e amministrativo già sufficientemente impegnato su altri fronti- avrà infatti dieci giorni di tempo per decidere se esaminare o meno il ddl in arrivo da Montecitorio. A stabilirlo, dovrà essere almeno un terzo dei suoi componenti (49). Da quel momento, il Senato delle autonomie avrà un mese di tempo per discutere e votare modifiche al testo sopraggiunto, rispedendolo emendato alla Camera che potrà infine contare su venti giorni per pronunciarsi definitivamente. In materia di approvazione del bilancio annuale il contributo del Senato è ancor più ridimensionato. Il tempo che gli è concesso per deliberare modifiche è dimezzato (15 giorni) e la “soglia” necessaria richiesta per poter decidere di farlo si irrigidisce, passando da un terzo alla maggioranza assoluta dei componenti. Questa accelerazione, però, non è reciproca. Infatti, qualora fosse il Senato (a maggioranza assoluta) a voler proporre un disegno di legge alla Camera, questa avrebbe ben sei mesi di tempo per potersi pronunciare.

“Ho l’impressione -ragiona il professor Angiolini- che si sia preso un po’ troppo come modello la Conferenza per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le autonomie locali, che è un organo amministrativo e che quindi non può dare l’idea esatta di che cosa può essere una seconda camera delle autonomie regionali e locali”. Ad esempio? “Un punto che sul piano dei poteri della seconda Camera è molto trascurato è quello del controllo sul governo. Non intendo il dare o meno la fiducia -che mi pare giusto riservare alla Camera più rappresentativa di tutti i cittadini- quanto svolgere un’opera di controllo sul governo che consenta di rendere l’attività dell’esecutivo trasparente e di costituire un contrappeso a singole decisioni”. “Anche perché -aggiunge Angiolini- il Parlamento italiano è uno dei più sguarniti di poteri di controllo sull’esecutivo”, a differenza del Bundesrat austriaco, del Senato belga, della Camera dei popoli della Bosnia-Erzegovina, delle commissioni permanenti che costituiscono il Senato francese, del Bundesrat tedesco, del Senato irlandese e dei membri di Joint Committees, del secondo ramo parlamentare dei Paesi Bassi, della House of Lords del Regno Unito, dei Senati romeno, svizzero e spagnolo. In Europa, i modelli più simili a quello ipotizzato dal governo Renzi -che anche secondo il presidente emerito della Corte Costituzione Valerio Onida “riduce eccessivamente le funzioni del Senato”- sono quelli di Repubblica Ceca, Polonia e Russia.
Un altro dato tempera -se non depotenzia- la tesi secondo la quale il Senato italiano poco o nulla abbia a che fare con le istanze dei territori. Rispetto alle precedenti due legislature (XV e XVI) l’attuale composizione parlamentare del Senato della Repubblica vede come prima professione rappresentata proprio quella dell’amministratore locale: 58 membri sul totale (315), contro i 30 della XVI legislatura e i due soltanto della XV.

Accanto alla proposta di riforma del Senato della Repubblica, però, procede la legge elettorale (cosiddetta Italicum), già approvata dalla Camera in prima lettura. Se dovessero entrambe mantenere l’attuale fisionomia, ci si potrebbe quindi ritrovare uno schieramento che, raggiunta la soglia minima del 37% dei voti espressi, conquisterà il 55% dei seggi alla Camera e potrà contare su un ramo parlamentare “blindato”. Considerando l’affluenza alle ultime elezioni politiche -il 75%- significherebbe riconoscere il 55% dei seggi -e perciò Governo e Parlamento- a uno schieramento che rappresenta “soltanto” il 26% degli aventi diritto.

“Siamo ancora una volta all’invenzione di un sistema elettorale il più complicato possibile -considera il professore di Diritto costituzionale alla Statale di Milano, Vittorio Angiolini-, in cui da un lato c’è l’unanimità dei partiti nell’escludere che l’elettore debba esprimere un giudizio anche sulle persone, e dall’altro si mettono soglie di sbarramento che tolgono ai grandi partiti la concorrenza dei partiti più piccoli e loro vicini. Portato a conseguenze estreme, è un puro e semplice indebolimento del tessuto democratico. Nel dibattito c’è un vizio: vogliamo usare i sistemi elettorali per cambiare il sistema politico ma non ci rendiamo conto che quando cambiamo il sistema elettorale i partiti cambiano, e si adattano, non necessariamente rendendo più forte la rappresentanza politica, che in Italia è in crisi, e che va ricostruita ricostruendo i partiti, non il mero sistema elettorale”. —

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