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Diritti / Reportage

A Baghdad da tutto l’Iraq contro il nuovo regime. Chiedono elezioni

Khadar al-Mohamadawi, uno dei numerosi guidatori di tuk-tuk di Baghdad che ha deciso di venire ad aiutare i manifestanti trasportando gratuitamente i feriti dal centro degli scontri sul ponte al-Joumhouria verso le ambulanze che stazionano nelle vie intorno alla piazza Tahrir - © Sofia Nitti

La voce dei manifestanti di piazza Tahrir, nella capitale. È l’epicentro delle proteste che a 16 anni dalla cacciata di Saddam Hussein rivendicano riforme radicali, per arginare la corruzione e garantire servizi anche nelle aree rurali

Tratto da Altreconomia 221 — Dicembre 2019

Il fumo dei lacrimogeni sparati dalle forze dell’ordine si mischia a quello, ancora più denso, dei copertoni bruciati dai manifestanti. Di giorno come di notte, dal primo ottobre, a Baghdad le esplosioni si susseguono a un ritmo incalzante. Sul ponte al-Joumhouria che attraversa il fiume Tigri e dalla piazza Tahrir porta alla zona verde, sede delle istituzioni e di alcune ambasciate tra cui quella americana, cittadini e autorità si affrontano senza tregua. I primi cercano di raggiungere gli uffici del governo, di cui invocano le dimissioni, i secondi li respingono a colpi di gas lacrimogeni, granate assordanti e addirittura proiettili, secondo numerosi giornalisti e manifestanti in piazza Tahrir. La capitale irachena di dieci milioni di abitanti è ormai un campo di battaglia. E non è l’unico. Gli scontri imperversano in numerose città, dai centri sciiti di Kerbela e Najaf, rispettivamente a 100 e 200 chilometri a Sud di Baghdad, fino a Bassora nell’estremo Sud dell’Iraq. Proprio a Bassora, provincia ricca di giacimenti petroliferi, i manifestanti hanno occupato per alcuni giorni a inizio novembre 2019 l’accesso al porto di Oum Qasr, vitale per gli scambi commerciali. La maggior parte delle navi-cargo ha fatto dietro front, senza scaricare.

Dal primo ottobre 2019, l’Iraq intero è in preda ad una lunga crisi sociale. Un movimento popolare laico, apartitico e senza leader, che unisce tutte le classi sociali e religiose. “Ecco, è tutto quello che ho” grida un uomo agitando un biglietto da mille dinari iracheni, l’equivalente di 70 centesimi di euro: “Siamo tutti senza lavoro”, aggiunge. È una mattinata soleggiata di fine ottobre 2019 e in piazza Tahrir, la più grande di Baghdad, una folla compatta di persone che agitano centinaia di bandiere irachene, impedisce di muoversi, dagli alberi al centro della rotonda fin sotto il monumento che commemora la fondazione della Repubblica nel 1958, dal lato opposto della piazza. Come le migliaia di persone intorno a lui, Salam Kashkal vuole innanzitutto un lavoro che garantisca uno stipendio a fine mese, per nutrire e far studiare i suoi quattro figli. Poco più in là, un vecchio dai lineamenti smagriti brandisce un mazzo di documenti medici che descrive dettagliatamente a chiunque voglia ascoltarlo: “Sono diabetico, eppure non ricevo né cure né sostegno da questo Stato”, lamenta. È un ex soldato, che ricorda gli anni passati a combattere nella guerra Iran-Iraq (dal 1980 al 1988).

Tra il primo e il 7 ottobre 2019, il bilancio delle proteste popolari è stato di 157 morti e più di 6mila feriti. Dopo una tregua di tre settimane per le celebrazioni della festa sciita di Arbaeen, il pellegrinaggio che segna la fine della quarantena in commemorazione della morte del profeta Hussein Ibn Ali, gli iracheni sono tornati nelle strade e da lì invocano un cambiamento radicale e definitivo. Secondo Human Rights Watch, un’Ong americana che si batte per il rispetto dei diritti umani in tutto il mondo, più di 300 persone sono morte e piu di 15mila sono rimaste ferite negli scontri tra il 25 ottobre e metà novembre, perlopiù manifestanti.

“Vorrei che fosse come negli altri Paesi e avessimo le leggi promesse. Vorrei che fosse la popolazione a prendere le decisioni, non gli Stati Uniti o l’Iran” – Mehdi al-Khafaji

A inizio novembre, le autorità avevano proposto delle riforme sociali e una commissione incaricata di redigere delle modifiche costituzionali, ma i manifestanti hanno continuato a reclamare la cacciata di tutti i responsabili del sistema politico in carica. Il presidente della Repubblica irachena Barham Saleh ha tentato di proporre elezioni anticipate, ma il Primo ministro Adel Abdel Mahdi, che catalizza l’astio della popolazione ed è ormai privo di consenso elettorale, ha bocciato la proposta definendola “irresponsabile”. A metà novembre è stato paventato un accordo tra le autorità e i manifestanti, rappresentati da due leader sotto copertura di anonimato. Ma, di nuovo, erano previste solo riforme, mentre i manifestanti esigevano dimissioni. Scontri e morti sono proseguiti.

“Il sistema politico in Iraq è corrotto dalla a alla z -accusa Khalid Obeid, tassista di Baghdad-. Era già abbastanza strano nel 2003, quando Paul Bremer (amministratore dell’Iraq dal 2003 al 2005, durante l’occupazione americana, ndr) ha messo in atto questo sistema di divisione dei poteri. Un Primo ministro sciita, un sunnita come portavoce del Parlamento, un presidente curdo”. In un Paese composto per il 75% da arabi (a maggioranza sciita e minoranza sunnita), per il 20% da curdi (tra cui gli yazidi) e per il restante 5% da numerose altre minoranze tra cui cristiani, turcomanni e assiri, il governo dovrebbe rappresentare la multietnicità. Ma per manifestanti come Khalid il tassista, che è già sceso nelle strade per le proteste del 2011 e del 2015 (sempre a causa della corruzione, della disoccupazione e la mancanza di servizi pubblici), si tratta semplicemente di un governo “corrotto e settario”. “Vogliamo la caduta del regime” dice. Regime: una parola che richiama gli anni oscuri del dominio di Saddam Hussein (Presidente della Repubblica dal 1979 al 2003) e le sue guerre deleterie contro l’Iran e il Kuwait, che hanno ridotto in macerie le infrastrutture e prosciugato l’economia dell’Iraq.

Eppure è proprio regime la parola che rimbalza di bocca in bocca oggi, da un lato all’altro della piazza Tahrir e nei quartieri storici intorno al fiume Tigri, come nelle strade di Sadr city, ghetto sciita nella periferia Est di Baghdad. Gli iracheni vogliono una nuova legge elettorale e un nuovo sistema giudiziario, nuove elezioni e un nuovo Parlamento entro due anni. Secondo l’indice di percezione della corruzione pubblicato ogni anno dall’Ong anti-corruzione Transparency International, l’Iraq è il dodicesimo Paese più corrotto al mondo. Dal 2003, secondo fonti ufficiali irachene, si calcola che la corruzione sia costata 410 miliardi di euro allo Stato, ovvero due volte il prodotto interno lordo e quattro volte il budget annuale del Paese. Trascinare i responsabili davanti alla giustizia è il sogno che gli iracheni vogliono ora veder diventare realtà.

Regime: la parola richiama gli anni del dominio di Saddam Hussein (1979-2003) e le guerre deleterie contro l’Iran e il Kuwait. Rimbalza  di bocca in bocca a Baghdad

“Nel nostro villaggio viviamo nell’età della pietra. Non ci sono servizi” spiega Mehdi al-Khafaji. Non ha potuto far curare sua madre diabetica perché l’ospedale non aveva i medicinali necessari, i suoi figli non hanno mai visto un dentista perché non ce n’è uno nel raggio di chilometri e tanto, dice Mehdi, non potrebbe permetterselo. Proviene da Shatrah, un piccolo centro rurale a quasi 350 chilometri a Sud di Baghdad. Questo capo tribù fa parte delle migliaia di persone che per gridare il loro scontento sono venute fin nella capitale. Arrivando di notte, dormendo per poche ore su un marciapiede del centro di Baghdad, per poter manifestare fin dalle prime luci dell’alba. Mehdi descrive una società rurale in cui l’agricoltura è resa impossibile dalla mancanza di acqua: colpa della siccità, ma soprattutto della pessima gestione delle risorse idriche da parte dello Stato.

L’acqua è dedicata principalmente al funzionamento dei pozzi petroliferi, in un Paese che è il secondo produttore dell’OPEC (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio). Sempre più salinizzate a causa del prosciugamento artificiale che provoca la risalita del mare da Bassora verso l’entroterra, le terre del Sud dell’Iraq sono ormai quasi incoltivabili. “Vorrei che fosse come negli altri Paesi e avessimo le leggi che ci sono state promesse. Vorrei che nel nostro Paese fosse la popolazione a prendere le decisioni, non gli Stati Uniti o l’Iran” spiega Mehdi.

“Folla di manifestanti in piazza Tahrir, nel centro di Baghdad, il 25 ottobre 2019. Era il primo giorno di ripresa delle manifestazioni dopo la tregua di tre settimane per la celebrazione sciita di Arbaeen – © Sofia Nitti

Le forze militari americane sono ancora presenti in Iraq a più di quindici anni dalla cacciata di Saddam Hussein nel 2003. Quanto all’Iran, a maggioranza sciita come l’Iraq, è un alleato politico di grande peso. Il regime iraniano interviene pesantemente nella politica nazionale e nell’economia irachene, anche grazie alle numerose milizie sciite sul territorio iracheno, che di fatto prendono ordini dall’Iran. Nate nel 2014 per lottare contro lo Stato Islamico, oggi sono viste dalla popolazione come complici del governo iracheno nel saccheggio delle risorse del Paese. “Hanno depredato le risorse dell’Iraq dal 2003 ad ora. Noi abbiamo combattuto lo Stato Islamico, i nostri ragazzi sono andati al martirio”, si lamenta Ali Buktash. Folti baffi grigi, tra le mani uno striscione che incita alla liberazione dell’Iraq, questo cinquantenne tarchiato è preoccupato soprattutto per le nuove generazioni. Secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale, in Iraq i giovani sotto i 25 anni costituiscono più del 60% della popolazione. Tra di loro, uno su quattro è senza lavoro. Oggi, invadono le strade a centinaia di migliaia in una rivoluzione che è, sì, contro il governo, ma anche per un Paese migliore.

“Aiutare i manifestanti, è il nostro dovere di giovani iracheni. La mia famiglia sa che sono qui e mi sostiene” – Hawra, 25 anni, contabile nel settore privato

Nel tunnel sotto la piazza Tahrir, mentre gli scontri imperversano, artisti improvvisati hanno disegnato nel corso delle settimane dei murales colorati invocando la pace, l’unità nazionale, ma anche affermando il ruolo delle donne in questa lotta. In Iraq il tasso di occupazione delle donne è uno dei più bassi al mondo (12% secondo dati pubblicati dalla Banca Mondiale nel 2019) e regnano tradizioni tribali tra cui la poligamia. Eppure centinaia di ragazze e donne di ogni età manifestano ogni giorno, distribuiscono acqua, cibo e mascherine sanitarie per proteggersi dai lacrimogeni. Decine di tassisti e guidatori di tuk tuk sono accorsi da tutta la città e passano le giornate a trasportare gratuitamente i feriti dal centro degli scontri verso le ambulanze, zigzagando tra la folla. “Aiutare i manifestanti, è il nostro dovere di giovani iracheni”, incita Hawra, 25 anni e lunghi capelli castani. Contabile nel settore privato, non ha nessuna intenzione di tornare nel suo ufficio fintanto che i suoi concittadini si batteranno nelle strade. “La mia famiglia sa che sono qui e mi sostiene”, assicura distribuendo bottigliette d’acqua ai giovani intorno a lei. Per Mimoun al-Hasanny, attivista e blogger, la famiglia è ormai qui, in piazza Tahrir: “Ci passo le mie giornate dall’alba al tramonto e, quando torno l’indomani, è come se con gli altri ci conoscessimo già. Come se ormai fossimo amici, una famiglia”.

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