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Finanza

Poste non può chiudere gli sportelli (e le azioni vanno in Kuwait)

Il governo verso l’uscita da Poste Italiane, ma intanto il Tar della Toscana dà ragione ai Comuni, una settantina, che hanno fatto ricorso contro la riduzione degli uffici. Tra due settimane la società (quotata in Borsa dall’autunno del 2015) distribuirà 444 milioni di dividendi; oltre 9 andranno al Kuwait Investment Office, che detiene il 2 per cento delle azioni: è il fondo di un Paese poco rispettoso dei diritti umani, secondo Amnesty International

Poste Italiane spa non può decidere unilateralmente la chiusura di un ufficio postale sul territorio nazionale. Anche se è ormai una società quotata in Borsa (dall’autunno del 2015), di cui il ministero dell’Economia conserva la proprietà del 64.69%, Poste garantisce infatti un servizio pubblico, cioè il “servizio postale universale”, e lo farà  in virtù di un affidamento da parte dello Stato fino al 2026. 

Il divieto è stato sancito dal Tar della Toscana, che con una serie di sentenze “fotocopia” sta rispondendo ai ricorsi presentati da numerosi enti locali che il 10 febbraio 2015 avevano ricevuto una comunicazione con cui Poste disponeva la chiusura di uffici postali o la riduzione dell’orario di apertura. “Sono 76 i Comuni interessati, e la quasi totalità ha presentato ricorso” spiegano da ANCI (Associazione nazionale Comuni italiani) Toscana. 
La sentenza che dà ragione al Comune di Capannori, in provincia di Lucca, è del 30 maggio 2016. In questo caso, gli uffici postali interessati erano 5.
 
Un servizio universale. Nella sentenza, il Tar sottolinea come gli uffici postali svolgano “un ruolo fondamentale nella funzione di coesione sociale ed economia sul territorio nazionale”, e sottolineando come il servizio universale debba “offrire agli utenti, in condizioni analoghe, un trattamento identico”. Non è possibile, cioè, discriminare categorie di cittadini (come ad esempio quelli che vivono in piccole frazioni isolate, o in Comuni di montagna), attestato -e il Tar lo ricorda- che lo Stato riconoscere a Poste Italiane un corrispettivo, un finanziamento pubblico per sostenere i costi (“gli oneri”) per la fornitura del servizio universale. Nel 2015 è stato di circa 280 milioni di euro.
 
Il tribunale amministrativo aggiunge che “la chiusura di un ufficio postale non può essere disposta solo per ragioni di carattere economico”, stigmatizzando inoltre che il “comprovato disequilibrio economico” di determinate attività non sia stato in alcun modo dimostrato da Poste Italiane. 
 
Tra le ragioni che hanno portato il Tar ad accogliere il ricorso del Comune di Capannori, vi è anche il fatto che Poste abbia ammesso di aver avviato -nella primavera del 2015- un “più ampio processo di dialogo con le istituzioni locali per l’analisi di dettaglio dei territori”, ammettendo di fatto che questa non era stata realizzata. Poste, tuttavia, non avrebbe inviato ai giudici amministrativi i verbali relativi ai suddetti incontri, che avrebbe permesso di “riscontrarne i contenuti”. Non c’è trasparenza nelle società guidata da Luisa Todini, l’ex parlamentare di Forza Italia che Matteo Renzi ha voluto nel 2014 alla guida dell’azienda
 
Poste Italiane spa ha chiuso il 2015 con un fatturato di 30,7 miliardi di euro, in crescita del 7,8% rispetto all’anno precedente. 
I servizi postali valgono ormai circa 3,9 miliardi di euro, meno del 13 per cento dei ricavi del gruppo, le cui attività principali oggi riguardano i servizi assicurativi e quelli finanziari, con la raccolta del risparmio postale anche per conto di Cassa depositi e prestiti (alla fine dello scorso anno Poste Italiane gestiva o amministrativa masse per 476 miliardi di euro).
 
Quei milioni di euro dalle Poste al Kuwait. Il prossimo 22 giugno 2016 Poste Italiane distribuirà il suo prima dividendo da società quotata, pari a 34 centesimi di euro per azione, per un totale di 444 milioni di euro (su un utile complessivo di 552). 
Oltre nove milioni prenderanno la via del Kuwait, dato che il Kuwait Investment Office, in qualità di agente del governo dello Stato, detiene il 2,058% delle azioni di Poste Italiane spa. Il partner commerciale del ministero dell’Economia è quanto meno discutibile. Secondo Amnesty International, nel corso del 2015 “le autorità (kuwaitiane) hanno approvato ulteriori restrizioni alla libertà di espressione, adottando tra l’altro una nuova legge sulla criminalità digitale”; nel Paese, inoltre, “i lavoratori migranti vivono una situazione di inadeguata protezione contro lo sfruttamento e gli abusi”; “il governo continua a negare la cittadinanza a oltre 100mila Bidun, o apolidi residenti in Kuwait, considerati ‘residenti illegali’”, arrestando e perseguendo gli attivisti per i diritti dei Bidun; per finire “15 persone sono state condannate a morte”. 
 
Una seconda privatizzazione in vista. I capitali kuwaitiani, però, potrebbero crescere, dato che il governo ha approvato in esame preliminare a fine maggio il Decreto con cui si andrà a mettere in vendita un ulteriore 30 per cento delle azioni di Poste Italiane spa.  
Viene meno, cioè, “il mantenimento in capo allo Stato di una quota di controllo assoluto” (cioè almeno il 51% delle azioni della società); viene meno, nell’intenzione dell’esecutivo, la sussistenza stessa di una partecipazione diretta dello Stato nel capitale dell’azienda, dato che -come sintetizza il comunicato stampa diffuso al termine del Consiglio dei ministri n. 118 del 31 maggio- la partecipazione pubblica “non inferiore al 35%” potrebbe essere anche trasferita a Cassa depositi e prestiti (CDP). La Cassa, però, non è a sua volta una società pubblica: parzialmente privatizzata a fine 2003, oggi è partecipata per circa il 20 per cento delle Fondazioni di origina bancaria. 
 
A rendere potenzialmente impraticabile l’opzione del governo, però, potrebbero essere ragioni di opportunità e di concorrenza, che saranno probabilmente vagliate dall’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato: in base a una convenzione, Poste Italiane raccoglie il risparmio postale e colloca i Buoni fruttiferi postali per conto di Cassa depositi e prestiti, che in cambio ha riconosciuto a Poste nel 2015 commissioni per 1,61 miliardi di euro. 

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