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Diritti / Attualità

I 60 anni della Corte europea dei diritti dell’uomo. Dalla parte della democrazia

Intervista a Guido Raimondi, già presidente della Corte di Strasburgo nell’ultimo triennio: “Eravamo certi che la democrazia fosse qui per restare”, in realtà è in atto un “deconsolidamento”. Ma la CEDU, con i suoi 58mila ricorsi pendenti, è un avamposto riconosciuto dai cittadini. Su Sea Watch 3: “Non mi pronuncio sul piano giuridico, su quello umano non si può che manifestare vicinanza a quelle persone che si trovavano in una condizione di estrema difficoltà”

“Per molto tempo, gli uomini e le donne della mia generazione hanno creduto che una volta stabilita la democrazia non potesse essere annullata. Eravamo certi che la democrazia fosse qui per restare. Invece stiamo assistendo a un fenomeno di disillusione sociale che potrebbe portare a una sorta di deconsolidamento democratico”. Il giudice Guido Raimondi ha presieduto la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo nell’ultimo triennio, dopo l’elezione nel 2010. Alla fine del gennaio 2019, ha tenuto il suo ultimo discorso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte. Parole nette, scelte non a caso. Così come le possibili “cause” strumentali individuate alla base di quel “deconsolidamento”: stagnazione economica, paure alimentate intorno al tema dell’immigrazione, pulsioni isolazioniste, anarchico sviluppo dei social network e diffusione su larga scala delle “fake news”. A pochi mesi da quel discorso e nel pieno dell’attacco ai soccorsi nel Mediterraneo centrale, gli abbiamo chiesto di riflettere su quel “preoccupante processo” che riguarda l’Europa, l’Italia, noi.

Presidente Raimondi, nel 2019 la Corte europea compie 60 anni. Il Consiglio d’Europa 70. Come giudica lo stato di salute della Corte e della Convenzione che la anima?
GR La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Corte di Strasburgo sono istituzioni di successo. La Corte si è dimostrata infatti negli anni vicina ai cittadini e questo è dimostrato dall’altissimo numero dei ricorsi che sono a oggi pendenti. Il loro alto numero -attualmente sono 58mila- indica anche una difficoltà di funzionamento, tenuto conto che la Corte non può gestire con efficacia decine di migliaia di pratiche. Ciò detto, questo è il segno che l’istituzione è credibile ed è una speranza per tutti.

Un patrimonio di giurisprudenza.
GR La Corte ha prodotto oltre 20mila sentenze. Una giurisprudenza ricchissima che copre tutti gli aspetti della vita civile. È una forma di garanzia, di assicurazione della democrazia, contro ogni possibile deriva autoritaria che potrebbe condurre verso regimi totalitari. Credo che sia un’istituzione benefica per il nostro continente. E la sua influenza va anche al di là dei confini europei perché le sue sentenze sono citate con una certa frequenza anche da eminenti istituzioni giudiziarie non europee. Di recente la Corte suprema indiana ha citato con larghezza la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in una importante sentenza sull’omosessualità. Inoltre è un’istituzione rilevante che ha saputo trasmettere i valori della Convenzione all’interno dei sistemi giuridici nazionali.

In che senso?
GR Parlavo prima del numero eccessivo di ricorsi. È un problema la cui soluzione va ricercata in parte a Strasburgo -nel senso che la Corte deve sforzarsi, come fa, di migliorare sempre più i suoi metodi di lavoro per raggiungere una maggiore efficienza- ma soprattutto all’interno dei sistemi giuridici nazionali. Questi devono essere sempre più efficienti nella protezione dei diritti fondamentali. Il sistema ha una natura sussidiaria: la Corte interviene solo quando i sistemi nazionali non hanno funzionato bene, secondo la regola del “previo esaurimento delle vie di ricorso interne”. Non si può adire la Corte di Strasburgo se prima non sono stati esperiti tutti i gradi di giudizio del sistema nazionale. È evidente che se il sistema nazionale applica bene la Convenzione, non c’è bisogno della Corte europea. E questa è la direzione da seguire. Occorre che la Convenzione sia sempre meglio applicata a livello nazionale, partendo dalla sensibilità degli operatori giuridici (giudici e avvocati) che operano all’interno del sistema.

Come si pone l’Italia rispetto a questa direzione?
GR Il nostro Paese è tra quelli che maggiormente contribuiscono all’alto numero di ricorsi pendente a Strasburgo. Detto questo, va dato atto che sforzi notevoli -sia per quanto riguarda i giudici e sia per quanto attiene agli avvocati- sono stati realizzati.

Ha parlato di direzione. Qual è stata quella seguita dalla Corte negli ultimi 20 anni -e la sua nel frattempo-?
GR Nel 1998 la Corte ha cambiato pelle ed è diventata da organo che si riuniva saltuariamente a Strasburgo a organo permanente. Nel 2010, inoltre, sono cambiate le regole sul mandato dei giudici. Attualmente il mandato è di 9 anni, un tempo non rinnovabile, come vale per la Corte costituzionale italiana. Quando sono stato eletto nel 2010 la regola era ancora quella dei sei anni rinnovabili, poi è entrato in vigore il Protocollo 14 e ho avuto un unico mandato di 9 anni, terminato nel 2019.

Nel suo ultimo discorso di apertura dell’anno giudiziario della Corte (gennaio 2019) ha dato conto di un preoccupante processo di “deconsolidamento della democrazia”.
GR Il rischio c’è. Assistiamo a una pressione crescente sull’idea classica di Stato di diritto, di Stato democratico liberale. Lo vediamo da quello che accade in alcuni Paesi dell’Europa centrale e orientale e che sono oggetto di attenzione da parte anche della Commissione europea. Cito anche una recente dichiarazione del presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, che ha detto che le democrazie liberali sono obsolete. Credo invece che la democrazia liberale sia un grande valore ottenuto a prezzo di enormi sacrifici dopo la Seconda guerra mondiale. È il modo migliore di vivere insieme e a garanzia di questo concetto, tra le altre cose, è stato istituito il sistema europeo di protezione dei diritti umani che è un sistema basato sulla democrazia effettiva, liberale, sul funzionamento cioè di sincere regole democratiche.

Come osserva la vicinanza di alcune formazioni politiche europee “di successo” con quel tipo di approccio nei confronti della democrazia?
GR È una situazione che è fonte di preoccupazione. Faccio un esempio significativo citando la violazione dell’articolo 18 della Convenzione europea, che testualmente recita: “Le restrizioni che, in base alla presente Convenzione, sono poste a detti diritti e libertà possono essere applicate solo allo scopo per cui sono state previste”. Riguarda cioè il loro uso distorto. La violazione dell’articolo 18 desta certamente preoccupazione per la tenuta dello Stato democratico. A gennaio di quest’anno ho constatato come negli ultimi tempi abbiamo assistito a una moltiplicazione dei casi di violazione dell’articolo 18. Su 12 violazioni in tutto, cinque si sono verificate solo nel 2018. È il segnale di una tendenza che preoccupa.

Il pieno rispetto e la corretta esecuzione da parte dei singoli Paesi dei pronunciamenti della Corte sono pilastri fondamentali di questo “sistema”. Come si pone l’Italia in questo frangente?
GR L’Italia storicamente ha sempre collaborato lealmente con la Corte europea e con il Comitato dei ministri, l’organo politico del Consiglio d’Europa incaricato di sorvegliare la corretta esecuzione delle sentenze. Certo ci sono state delle difficoltà ma non di carattere politico. Penso al caso dell’eccessiva lunghezza del processo, evidenziato dalla Corte già 40 anni fa. Non si può dire che il problema sia stato risolto ma non per un ostacolo di ordine politico da parte dell’Italia. Non ci sono situazioni di tensione quanto all’esecuzione delle sentenze, cosa che invece si verifica per altri Paesi.

Si può dire lo stesso anche rispetto ai fatti del G8 di Genova 2001 oggetto delle sentenze della Corte negli anni trascorsi? Glielo chiedo alla luce delle prese di posizione del Consiglio d’Europa e dell’attività di supervisione da parte del Comitato dei ministri, che danno conto di una situazione ancora “pendente”, per così dire.
GR Nel caso della sentenza “Cestaro contro Italia” dell’aprile 2015 la Corte ha messo il dito su una grave lacuna dell’ordinamento italiano, ovvero la mancanza di una legge sulla tortura. È inutile ricordare che quella lacuna è stata colmata, tra molte polemiche. Ma la primaria esigenza della sentenza è stata soddisfatta. Non vuol dire che la legge sia automaticamente da considerare perfetta. Spero sinceramente che episodi del genere non si riproducano e che la Corte non debba di nuovo occuparsi di casi di tortura che riguardano il nostro Paese: dovesse verificarsi un’eventualità di questo genere, è possibile che la Corte si pronunci sull’adeguatezza di questa legge.

Guardando ai fatti di cronaca recenti del Mediterraneo. Sono trascorsi sette anni dalla sentenza “Hirsi Jamaa contro Italia” del febbraio 2012 relativa ai respingimenti dei migranti in Libia effettuati nel 2009 dalle autorità italiane. Che cosa è cambiato dopo quel passaggio storico?
GR Faccio una premessa importante: la Corte ricorda sempre il principio secondo il quale gli Stati hanno il diritto di controllare i flussi migratori, non interviene cioè nelle politiche migratorie. Gli Stati sono sovrani nel decidere chi può entrare e chi no. Una volta che una persona è entrata, legalmente o meno, scattano dei doveri previsti dalla Convenzione. Bisogna trattare con umanità le persone giunte sul territorio, rispettare la loro dignità, assicurare un’accoglienza rispettosa dei diritti fondamentali delle persone e così via. La Convenzione non esclude che nell’ambito dei poteri di regolazione dei flussi migratori, le persone giunte sul territorio possano anche essere private della libertà, con tutte le garanzie imposte dalla Convenzione. Detto ciò, gli Stati hanno il dovere di “non-refoulement”, non possono in ogni caso espellere una persona verso un Paese dove questa rischierebbe trattamenti contrari alla Convenzione.

Il Consiglio d’Europa ha recentemente messo in luce che dopo la sentenza “Hirsi Jamaa” gli Stati europei avrebbero tentato “attivamente di evitare di dover accogliere a bordo i migranti salvati” lasciando il compito ad altri, “compresi quelli che non rientrano nel campo di applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Una sorta di respingimento delegato, un aggiramento di quella sentenza.
GR È una questione come lei sa all’esame della Corte in questo momento. C’è stato un provvedimento provvisorio ma la Corte dovrà pronunciarsi nel merito, vedremo che cosa dirà, non sono in grado di dare valutazioni sulla futura giurisprudenza della CEDU. Nel caso “Hirsi Jamaa” si trattava di persone a bordo di navi militari italiane. La novità di quella sentenza è che si è affermata la responsabilità dello Stato italiano anche se i fatti avvenivano al di fuori delle acque territoriali.

Citava il provvedimento provvisorio sul caso della “Sea Watch 3” del 25 giugno giunto a seguito della richiesta di misure cautelari ai sensi dell’art. 39 del Regolamento di procedura della Corte EDU. I sostenitori delle politiche governative hanno celebrato quel pronunciamento di Strasburgo come una dimostrazione ulteriore della bontà della strategie dei presunti “porti chiusi” o “porti negati”. È una forzatura?
GR Si tratta di un provvedimento basato sull’eventuale urgenza, la Corte non si è pronunciata nel merito, occorre aspettare una decisione o una sentenza per comprendere l’orientamento e la giurisprudenza. Da un provvedimento cautelare non si può trarre nessuna indicazione di carattere generale.

Alla notizia della decisione della Corte di non ordinare allo Stato italiano di adottare le misure d’urgenza richieste per le persone che si trovavano a bordo della Sea Watch 3, i legali dell’organizzazione hanno espresso “profondo sconcerto”, proporzionale alla disperazione diffusasi tra i naufraghi.
GR Sul piano umano non si può che manifestare vicinanza a quelle persone che si trovavano in una condizione di estrema difficoltà come quella. Credo però di dovermi limitare al piano umano. Sul piano giuridico invece non mi pronuncio sulla fondatezza e sul valore del provvedimento preso dalla Corte di Strasburgo.

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