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Altre Economie / Opinioni

200 volte Altreconomia. Dove siamo arrivati. Dove continueremo ad andare

La copertina del primo numero di Altreconomia. Novembre 1999

Persone, luoghi, parole, lavoro, riconoscimenti e qualche porta in faccia. Il percorso che ci ha portato fino a qui -dal primo numero del 1999 al 200esimo di oggi- è un percorso comune con chi ci legge: abbiamo osservato il mondo con occhi curiosi, preoccupati, ammirati. Continueremo a farlo insieme a voi. L’editoriale del direttore di Altreconomia, Pietro Raitano

Tratto da Altreconomia 200 — Gennaio 2018

“È ormai evidente che la cosiddetta ‘globalizzazione dei mercati’ ha prodotto uno sconquasso nelle economie locali di gran parte del mondo e ha offerto vantaggi solo a una piccola parte della popolazione del Pianeta, una nuova classe sociale emergente in tutti i Paesi”. Così scriveva il professor Tonino Perna, uno dei fondatori di Altreconomia, sul primo numero della nostra rivista, nel novembre 1999. Oggi siamo al numero 200 e quelle parole valgono ancora.

Dietro a quel “200” ci sono altri numeri: migliaia di riunioni di redazione, migliaia di ore al telefono e al computer, decine di giornalisti ed editorialisti, migliaia di lettori, centinaia di soci, centinaia di storie da raccontare, di luoghi da descrivere, di persone cui dare parola e ascoltare, qualche porta in faccia e tanti riconoscimenti, una mezza dozzina di tipografie cui consegnare in tempo i file per la stampa. Poi ci siamo noi: donne e uomini che credono nel lavoro che fanno (ma senza prendersi troppo sul serio!).

Il percorso che ci ha portati fino a qui, mese dopo mese, è un percorso comune con chi ci legge: abbiamo osservato il mondo con occhi curiosi, a volte preoccupati, a volte ammirati. Molto spesso stupiti. Da una prospettiva inusuale, certamente limitata. Ma nitida, responsabile. Una prospettiva di cui abbiamo rivendicato mese dopo mese l’indipendenza. Senza paura. Lo racconta anche la fotografia che tutti i nostri lettori, abbonati e non, hanno ricevuto in regalo con questa copia. Uno sguardo attraverso i muri delle nostre certezze e dei nostri pregiudizi. Uno sguardo giovane. Uno sguardo da Sud.

Dove siamo arrivati?

Oggi siamo su un altro Pianeta rispetto a quel “numero 1”. L’ampiezza e la portata dei cambiamenti lasciano senza fiato. Sia nel bene, sia nel male. Anche il mondo dell’informazione è cambiato. I telegiornali sono ancora usati abitualmente per informarsi dal 61% degli italiani -ma la percentuale scende a 54 se si parla di giovani-. La seconda forte di informazione? Facebook, con il 35%: diventa il 49% nel caso degli under 30. Tra i mezzi utilizzati per informarsi dai giovani seguono Google (26%) e Youtube (21%). I quotidiani sono al sesto posto: letti regolarmente dal 14% della popolazione. Ma solo dal 5,6% dei giovani.

Il Centre for Media Pluralism and Media Freedom pubblica con puntualità e costanza studi sulla salute dei mezzi di informazione nell’Unione europea, evidenziando i principali rischi cui il sistema va incontro, Paese per Paese. Nel caso dell’Italia i rischi principali hanno a che fare -come è facile aspettarsi- con la mancanza di trasparenza in tema di proprietà dei media, con la concentrazione di questi nelle mani di pochi, con l’influenza degli inserzionisti, con l’ingerenza della politica e con lo stato in cui versa la professione giornalistica. Ma c’è una voce che è peggiore delle altre: è l’alfabetizzazione degli italiani in tema di informazione. Lo sancisce anche il Censis: il 52% degli italiani ha dato credito a un’informazione reperita in Rete, che poi si è rivelata falsa. Tra i giovani si sale al 59%.

I social network, il regno dove si critica senza fare autocritica, dove si mente su se stessi e a se stessi, nell’illusione di avere qualcuno che ci ascolta, quando siamo sempre più soli, hanno certamente le loro responsabilità. Ma anche se la diffidenza sta diventando un regime politico, noi crediamo ancora nella fiducia. Tra di noi, e quella che ci riservate voi.

In quel primo numero il professor Perna concludeva così, quasi profetico: “Anche da noi, nell’Occidente opulento e ingiusto, razzista ed escludente, si moltiplicano le forme di un’economia altra, che tentano di dare risposta non solo al problema della precarietà del lavoro -fenomeno sempre più preoccupante- ma anche al fondamentale bisogno di senso che questo modello di mercificazione esasperata ha prodotto. È dall’efficacia con la quale i soggetti dell’altreconomia si organizzeranno, giocheranno il loro ruolo, incideranno sulle istituzioni internazionali e locali, che dipende il futuro di tutti noi”.

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