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WhatsApp e gogna mediatica: ma i “termini di utilizzo” rispettano la legge?

Dopo i tragici fatti occorsi alla 31enne che si è suicidata perché ostaggio di contenuti virali, è necessario riflettere sulle “condizioni” d’uso non solo dei social tradizionali, ma anche e soprattutto della piattaforma di messaggistica di proprietà di Facebook

© Flickr Jeso Carneiro

Prima che il tragico suicidio della donna 31enne avvenuto il 13 settembre (a seguito della diffusione di video, fotografie, articoli e altri contenuti che la riguardavano) venga inghiottito dall’ipocrisia, potrebbe essere utile costringere la piattaforma “WhatsApp”, la prima sulla quale ha iniziato a circolare il materiale filmato, ad adeguare i propri “Termini di servizio”. Non tanto al buon gusto, buon senso o costume, quanto alla legge, chiarendo finalmente la responsabilità -in ogni sede- di chi contribuisce a veicolare contenuti illeciti.

Confrontando infatti il testo aggiornato dei “Termini” -l’ultima modifica risale al 25 agosto 2016- con la (datata) legge che nel nostro Paese disciplina e regola le responsabilità dei “prestatori di servizi della società dell’informazione” -il decreto legislativo sul commercio elettronico è del 2003- parrebbero emergere “distanze” quanto meno problematiche.

Agli utenti che hanno distrattamente accettato il suo lungo elenco di punti, WhatsApp -acquistato da Facebook per 19 miliardi di dollari nel febbraio 2014- indica due clausole: “Esclusioni di responsabilità” e “Limitazioni di responsabilità”. Entrambe in maiuscolo, entrambe da leggere con cura.

“L’utente -si legge in un passaggio della prima parte- esenta noi, le nostre società controllate e affiliate e i nostri e i loro dirigenti, amministratori, dipendenti, partner e agenti […] da ogni domanda, ricorso, azione legale, controversia o contenzioso […] e danni, noti e non noti, relativi a, derivanti da o collegati in qualsiasi modo a rivendicazioni che l’utente possa avere contro terzi”.

Per WhatsApp, i danni possono essere “noti e non noti”. E in un altro passaggio aggiunge: “Le parti di Whatsapp non saranno responsabili nei confronti dell’utente per lucro cessante o danni consequenziali, speciali, punitivi, indiretti o accidentali relativi a, derivanti da o legati ai nostri termini, a noi o ai nostri servizi, anche nel caso in cui le parti di Whatsapp fossero state avvisate dell’eventualità del verificarsi di tali danni”.

Dunque, il mantello dell’irresponsabilità s’allunga anche nel caso in cui l’eventualità del danno fosse nota. Ma questa clausola sembrerebbe in netto contrasto con la legge laddove si occupa di attività di “memorizzazione di informazioni”.

In Italia, il “prestatore” non è mai responsabile. Eccetto in due casi. Il primo è quando non sia stato a conoscenza che l’informazione “fornita da un destinatario del servizio” fosse “illecita” e, “per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione”. Il secondo è quando messo al corrente dalle “autorità competenti” non abbia agito “immediatamente” per “rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso”.

Eppure, WhatsApp -che ai suoi “utenti-clienti” tiene particolarmente, come dimostra il fatto che abbia recentemente aggiunto nell’“Informativa sulla privacy” la possibilità di “offrire” il marketing anche “per i servizi del gruppo di società di Facebook”- pretende per sé una manleva più larga, anche in casi di “danni” di cui era stato messo a conoscenza.
Prevarrà la normativa nazionale (e comunitaria, come la Direttiva 2000/31/CE) o i “Termini” di una società domiciliata in California?

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