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Finanza / Opinioni

I segni invisibili della crisi

Senso di colpa, impotenza, indifferenza. Il tracollo economico, sociale e finanziario iniziato dieci anni fa ha lasciato sul campo conseguenze -anche esistenziali- che non devono essere sottovalutate. Perché condizionano i nostri comportamenti, perché da lì si potrebbe ripartire. L’analisi del professor Tonino Perna

Quasi dieci anni fa scoppiava la crisi dei mutui subprime negli Usa. Il re era nudo: il ruolo nefasto della finanza era ormai evidente al grande pubblico, gli stipendi mostruosi  dei manager, Ceo, a.d., erano diventati improvvisamente intollerabili e scandalosi. Basti pensare che nel 2007, l’anno in cui scoppiò la crisi e crollò la Borsa di Wall Street, la remunerazione dei bancari delle quattro principali banche statunitensi era aumentata del 9% arrivando a 66 miliardi di dollari, mentre le rispettive banche perdevano 50 miliardi di capitalizzazione in Borsa. Insomma i dipendenti di questi grandi banche venivano pagati in media 350mila dollari a testa per bruciarne 274mila. Per non parlare delle centinaia di milioni di dollari presi da ciascun banchiere al momento della liquidazione. Stan O’ Neal, Ceo della Merill Lynch licenziato nell’autunno del 2007 in seguito al crollo in borsa della società, ricevette una liquidazione di 161 milioni di dollari. Charles Prince capo della potente Citigroup fu costretto alle dimissioni dopo aver portato la società vicina al fallimento, ricevette una liquidazione di “soli” 140 milioni di dollari. Questo per citare solo alcuni casi tra i più clamorosi.

Molti di noi hanno pensato che con il crollo delle  Borse, con il licenziamento in massa degli operatori finanziari (150mila solo a New York), con gli evidenti effetti collaterali sull’economia “reale”, il sistema capitalistico mondiale dovesse cambiare rotta.  Invece, dopo dieci anni osserviamo che la capitalizzazione nelle principali Borse del mondo sia tornata a livelli superiori al 2007, il debito pubblico e privato (Stato, famiglie e imprese) è arrivato al 265% del Pil mondiale (con un incremento del 35%) ed in particolare cresce il debito statale, impropriamente chiamato “sovrano”, di oltre 20mila miliardi di dollari.
Insomma, tutto è tornato come prima e peggio di prima nel mondo della finanza.
Come è ormai evidente questa crisi non è paragonabile a quelle precedenti: ha provocato un’accelerazione nella diseguale distribuzione di redditi, patrimoni, potere; ha impoverito una buona parte della popolazione mondiale, compresi i Paesi occidentali industrializzati che hanno visto per la prima volta una forte riduzione  dei ceti medi. Conosciamo bene  gli effetti della crisi economica e finanziaria che ha colpito in modo particolarmente violento i Paesi dell’Europa del Sud e quindi anche il nostro Paese. Conosciamo gli effetti nefasti sull’occupazione, sulla crescita del disagio sociale, sul taglio dei servizi pubblici, sul crollo degli investimenti, ma non abbiamo ancora preso atto dei segni profondi che questa crisi ha lasciato nel vissuto della popolazione, dei “segni invisibili” che le statistiche non registrano, ma che possiamo cogliere nei mutamenti culturali,  nelle visioni del mondo, nell’agire quotidiano. Ha ragione Roberto Esposito quando afferma che “la crisi economica degli ultimi anni è diventata biopolitica nel senso che impatta fortemente con la vita delle persone”.

Come docente universitario ho vissuto sia nel contatto con i miei studenti,  sia attraverso delle ricerche sul campo, il dramma della inoccupazione giovanile, dei Neet (Not employement, education, training)  e ho percepito come prima cosa che i giovani  laureati, anche “masterizzati” o “dottorati”, abbassavano di anno in anno le loro aspettative. Anche a livello nazionale, in alcune ricerche sulla condizione giovanile, emerge chiaramente che i giovani (dai 18 ai 35 anni) tendono ad accontentarsi quando riescono ad avere un lavoro, magari mal pagato, e che alcuni si sentono dei fortunati e privilegiati solo perché sono riusciti a vincere un concorso pubblico, magari per una mansione dequalificante e con uno stipendio, che in una grande città, ti consente appena di sopravvivere. In questo senso si può dire che la crisi economico-finanziaria ha avuto un carattere “disciplinante” nell’accezione di Foucault, ha abbassato le aspettative e quindi ha permesso di ridurre i diritti sociali senza che ci fossero delle grandi rivolte popolari (eccetto che in Francia, dove questi diritti erano storicamente più radicati). Chi viene sfruttato e maltrattato sul luogo di lavoro si lamenta, ma poi aggiunge “meglio di niente: almeno io un lavoro ce l’ho”.
Ho visto una condizione simile, per la prima volta in vita mia, nel Cile di Pinochet nel 1986, quando ero in quel Paese per un progetto di cooperazione, di fatto per sostenere insieme a tanti altri l’opposizione democratica al dittatore. Non potrò mai dimenticare la sera in cui un tassista che mi accompagnava a casa di  amici cileni mi raccontò il fallimento dell’azienda dove lavorava e disse testualmente “ero un lavoratore superfluo” e ho dovuto trovarmi un altro lavoro e per fortuna ho trovato un padrone che mi affitta il suo taxi. Quello che mi è rimasto impresso è il senso di colpa che questo lavoratore esprimeva: si era convinto che il licenziamento fosse giusto e che lui fosse il colpevole, come nelle culture premoderne lo erano (e lo sono ancora in alcune aree del mondo) le persone disabili, che vivevano l’handicap come l’espiazione per un peccato commesso.

Ed i “segni invisibili” della crisi  li possiamo cogliere anche in una maggiore indifferenza verso il dramma dei migranti che muoiono nel Mediterraneo, verso le guerre che mietono decine di migliaia di vittime innocenti tra la popolazione civile, che distruggono città con una grande storia alle spalle (in Iraq, Siria, Libia, ecc.). È quella  “indifferenza globalizzata” denunciata da papa Francesco che la senti camminare tra una battuta e l’altra nei discorsi sul treno, al bar, o al ristorante, tra persone estranee quanto tra gli amici più cari.
E questa dimensione esistenziale, visione ego-patologica della vita, è il frutto di un profondo senso di impotenza, che questa crisi non ha prodotto direttamente ma ha concorso a rafforzare.

Detto con altre parole, possiamo affermare che questa crisi, che dalla finanza è transitata all’economia “reale”,  ha segnato paradossalmente il trionfo del pensiero unico: il Mercato è l’unica salvezza e nel Mercato sopravvivono i migliori ed i più adatti. Non è possibile modificare questo modello di sviluppo capitalistico, dato che ogni tentativo è fallito miseramente. I Paesi del socialismo reale sono crollati come pere cotte e i comunisti cinesi e vietnamiti si sono salvati dal crollo e dalla perdita del potere convertendosi al turbo-capitalismo.

Pertanto, possiamo dire che al di là di una possibile ripresa economica (piuttosto improbabile) i segni della crisi resteranno per molto tempo perché sono penetrati nell’anima della maggioranza della popolazione. Ed è qui che si coglie la forza micidiale del neoliberismo trionfante. Non è stata tanto e solo la concorrenza ad aver scatenato tra lavoratori sempre più precarizzati, tra disoccupati ed immigrati, quanto il  processo di interiorizzazione e di colpevolizzazione che è avvenuto. È stata interiorizzata l’idea che abbiamo vissuto per troppo tempo al di là delle nostre possibilità, che abbiamo esagerato nel welfare, nella spesa pubblica, nello Stato sprecone (vedi la necessità strombazzata di una spending review). Pertanto il debito insostenibile dello Stato -che è cresciuto iperbolicamente per salvare le grandi banche-  è colpa nostra, la perdita di competitività delle nostre imprese è colpa nostra, dei lacci e lacciuoli che le leggi impongono (come lo Statuto dei lavoratori).

Questa è la grande sfida che abbiamo davanti, almeno tutti coloro che credono che vada cercata e praticata un’alternativa a questo sistema che è, malgrado le apparenze, fallito e rischia di trascinare tutti nel suo processo autodistruttivo. Per chi vuole  costruire un’Altreconomia, ed ogni giorno si spende in questa direzione, non può non fare i conti con i “segni invisibili” della crisi. La mera azione o attività di solidarietà o di commercio equo, di autogestione di imprese recuperate, non basta o addirittura non serve se non concorre a creare una coscienza critica e quindi a dare una risposta esistenziale che vada in un’altra direzione.

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