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Esteri / Reportage

Professori, studenti e la repressione del dissenso in Turchia

I docenti che criticano Erdogan vengono cacciati dalle università, e chi ha frequentato gli istituti di formazione legati al movimento di Fethullah Gülen trova difficilmente un impiego. Il tentato golpe del 15 luglio ha peggiorato la situazione. Nel 2013 le prime proteste per gli alberi di Gezi Park, a Istanbul, in piazza Taksim

Tratto da Altreconomia 186 — Ottobre 2016
L'ingresso dell'università di Istanbul

“Non ho il diritto di parlarti. Non ho il diritto di lasciare la mia città senza una valida motivazione. E questa certamente non lo è”. Il professor M. insegna Economia all’università pubblica di Eskişehir, cittadina a metà strada tra Ankara ed Istanbul, famosa per le sue pipe di schiuma. È venuto fino ad Istanbul per incontrarmi. Insieme raggiungiamo uno dei bar terrazzati di Eminonu, con una splendida vista sul Bosforo. “La mia e-mail istituzionale è sotto controllo -dice-, per questo ti ho chiesto di scrivermi sulla casella privata”. Neomarxista convinto e fiero oppositore di Erdogan, il professor M. è noto nell’ambiente accademico per le sue decise critiche alla politiche neoliberiste del governo turco, che a suo parere stanno spingendo il Paese verso un’inevitabile crisi economica. Come molti dei suoi colleghi, da tempo è nel mirino della censura governativa, che non tollera alcuna voce di dissenso. “Se parli male di lui ti licenziano, oppure ti sottopongono a una serie di azioni di mobbing”, spiega mentre sorseggia il tè da uno dei tipici bicchierini dal corpo di ragazza. “Il mio rettore, ad esempio, mi odia. Ha fatto di tutto per impedirmi di partecipare a un progetto in collaborazione con la John Hopkins University di Baltimora sulla società civile in Turchia. Inoltre, fino a qualche mese fa ero il curatore di due libri di testo (‘Introduzione all’economia’ e ‘Organizzazione industriale’), ma il mio nome è sparito dalla nuova edizione, sostituito da un altro che non ha nemmeno la metà della mia esperienza. Nemmeno gli autori sapevano niente”.

Tra i colleghi e amici del professor M. ci sono alcuni degli “Accademici per la pace”. 2.218 intellettuali, in gran parte turchi, che nel gennaio 2016 firmarono la petizione “Non saremo parte di questo crimine”, chiedendo apertamente al governo turco di fermare le violenze contro i curdi e gli arresti dei politici dissidenti. Molti di quegli studiosi sono stati accusati di essere fiancheggiatori dei terroristi e continuano a subire le conseguenze della feroce repressione del governo di Erdogan, fatta di arresti, minacce e licenziamenti indiscriminati. “Un paio di settimane fa -prosegue il professore- un ex collega in pensione da 2 anni mi ha fatto visita nel mio studio. Abbiamo cominciato a parlare, e nel bel mezzo della conversazione mi ha intimato di stare lontano da quei miei amici, se non volevo fare la loro stessa fine. Non mi sarei mai aspettato una cosa simile da una persona che conosco e stimo. È evidente che qualcuno lo ha mandato a minacciarmi”. Lo stato di emergenza di tre mesi proclamato dal governo a seguito del fallito colpo di Stato militare del 15 luglio scorso sta peggiorando la situazione. Quindici università sono state chiuse e più di 1.500 presidi di facoltà sono stati rimossi dei loro incarichi per accentrare il potere decisionale nelle mani dei presidenti, figure vicine all’establishment governativo nominate senza elezioni. La caccia alle streghe coinvolge anche impiegati del ministero dell’Istruzione e insegnanti di quelle scuole private appartenute al movimento di Fethullah Gülen e immediatamente chiuse o “riconvertite” dopo la notte del tentato golpe.

Piazza Taksim, teatro delle proteste del 2013 per salvare gli alberi di Gezi Park
Piazza Taksim, teatro delle proteste del 2013 per salvare gli alberi di Gezi Park

Canel, 22 anni, studente alla Boğaziçi Üniversitesi (una delle migliori università pubbliche della Turchia) mi ospita nel suo appartamento nel quartiere degradato di Dört Levent, che condivide con altri cinque studenti. Ci accomodiamo sul piccolo balcone, mentre la voce del müezzin invita i fedeli alla preghiera serale, l’ultima della giornata. Prende un foglio A4 e ci disegna sopra la Turchia, illustrandomi la straordinaria diffusione del movimento di Gülen tra gli anni 50 e 60. “Il movimento -spiega- era riuscito a penetrare in tutti i settori della società, ma soprattutto in quello dell’educazione, università compresa. Esercitava una forte attrazione sugli studenti: gli istituti privati di Gülen offrivano borse di studio agli studenti migliori e alloggi studenteschi a prezzi molto convenienti”. Dopo il fallimento del golpe, il partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP) di Erdogan ha bollato il movimento di Gülen come l’organizzazione terroristica responsabile della cospirazione, e ha iniziato a perseguitarne i membri. “Anche gli studenti ne pagano le conseguenze -prosegue Canel-: ero arrivato 999° su due milioni di studenti turchi del mio anno nel durissimo esame di ammissione all’università, e il movimento mi offrì di studiare in uno dei loro istituti con un salario fisso mensile. Ma dissi a mio padre che volevo guadagnarmi il pane lavorando, e scelsi l’università pubblica. Oggi ringrazio il cielo. Prova a immaginare che cosa significa presentare a un’azienda un curriculum che attesta la tua passata appartenenza al movimento. Non ti assumeranno mai. E lo stesso vale per gli insegnanti licenziati che tentano di essere riassunti. Il marchio di infamia ti accompagnerà per sempre, l’innocenza non è una buona motivazione”.

“Se avevi dormito a Gezi Pak eri un nemico della Turchia. Nelle aree rurali qualcuno ci ha rimesso la pelle per le sue idee. Segno che non siamo ancora pronti” (Emre, 22 anni)

Mina, 21 anni, ha avuto dei trascorsi nel movimento da bambina: ha frequentato per due anni una delle scuole elementari di Gülen, e nel fine settimana perfezionava il suo apprendimento in uno degli istituti privati di potenziamento, la cui chiusura fu uno degli elementi che segnarono l’inizio dei dissapori tra Gülen ed Erdogan. Ora studia alla Sabancı Üniversitesi, una delle università private di Istanbul. È una ragazza molto dolce e veste alafranga, come la maggior parte delle sue amiche. Le chiedo la sua opinione sulla situazione per quanto riguarda l’universo femminile turco. “Non sono preoccupata -risponde-, non credo che subiremo limitazioni in futuro. Quello che posso dire però è che la nuova generazione di donne non si sta muovendo in blocco verso l’indipendenza e la liberalizzazione dei costumi. La società tende a rimanere spaccata tra una figura di donna più tradizionale e un’altra più moderna”. Passando ad affrontare il tema dell’istruzione, spiega che “le famiglie turche si preoccupano molto dell’apprendimento dei figli, e il supporto nel fine settimana era un buon servizio. Adesso l’unico modo è prendere lezioni private e costa molto di più. Ricordo -aggiunge- che i miei maestri erano molto validi e mi dispiace moltissimo pensare che siano vittime di licenziamenti indiscriminati seppur innocenti, come gli universitari. Credo che gli insegnanti in questo momento stiano soffrendo più di noi studenti, almeno di quelli che non hanno avuto troppo a che fare con il movimento”.

In una Istanbul tappezzata di bandiere turche e cartelloni propagandistici che incitano alla lotta contro il terrorismo, comunque, molti studenti sono consapevoli del ruolo che possono svolgere nel combattere l’ingiustizia. In uno dei locali fumosi di Kadıköy, zona di movida notturna sulla sponda asiatica, incontro Tuna. Ha 22 anni e studia alla Bilgi Üniversitesi. Mi racconta un episodio avvenuto a giugno, nell’ultima settimana dello scorso semestre. “Una nostra docente, la professoressa Bedra Zeynep Sayın Balıkçıoğlu, era stata presa di mira dall’amministrazione dell’università per le sue posizioni antigovernative. Alcuni studenti vennero istigati a registrare un discorso che tenne durante una lezione, in cui criticava Erdogan. L’audio fu pubblicato su youtube (è disponibile, in turco, all’indirizzo https://youtu.be/XAi4vplMfIU) e la cosa finì sui giornali e sui siti internet, che per giorni la chiamarono traditrice e le organizzarono una bella gogna mediatica. In breve tempo fu licenziata. Alla fine dell’anno, come sempre, ci furono le cerimonie di consegna dei diplomi di laurea, alle quali di solito partecipano tutti gli studenti dell’ateneo: in tre occasioni, per tre diversi giorni, abbiamo voltato le spalle all’amministrazione dell’università, in segno di protesta contro il licenziamento. Soltanto pochi studenti guardavano ancora negli occhi il presidente Mehmet Durman, per solidarietà. Ma noi che protestavamo -dice- eravamo il 90%, e alla fine abbiamo costretto il presidente a dimettersi”.

2.218 gli “Accademici per la pace” che nel gennaio 2016 hanno firmato un appello per chiedere al governo di fermare la violenza contro i curdi e gli arresti dei dissidenti

Sul valore della protesta rifletto insieme ad Emre, anch’egli studente ventiduenne della Sabancı, sul traghetto notturno che ci riporta sulla sponda europea. “Non capisco con quale criterio stiano censurando gli accademici, e ho seri dubbi sulla professionalità dei nuovi rettori piazzati dal governo a capo delle università -spiega-. Penso sia nostro compito fare qualcosa, ma anche che la mia generazione non sia culturalmente pronta. La notte del golpe ero in Erasmus in Olanda, probabilmente sarei sceso in strada anch’io per difendere il mio Paese dai militari, ma quella protesta -prosegue- non è paragonabile a quella di piazza Taksim, nel 2013. A Taksim c’erano gli intellettuali, gli accademici e gli studenti progressisti. Persone ben preparate e aperte di mente che credevano in un futuro diverso per la nazione. Siamo riusciti a salvare gli alberi di Gezi Park, poi la protesta è proseguita con il tintinnio dei cucchiai dalle finestre, nei mesi successivi agli scontri. È stato molto bello. Ma quelle stesse persone che protestavano sono andate incontro all’ostilità del resto della popolazione. Se avevi dormito a Gezi eri un nemico della Turchia. Nelle aree rurali qualcuno ci ha anche rimesso la pelle per le sue idee. Segno che non siamo ancora pronti”.

“Che cosa bisogna fare, allora?”, chiedo. “Educare le persone -risponde Emre-, perché l’educazione è l’unica arma che abbiamo per far progredire il nostro Paese. Per questo stanno cercando di togliercela”.

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