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Esteri / Opinioni

Medio Oriente, un secolo di conseguenze

La spartizione del Medio Oriente secondo gli accordi Sykes-Picot del 1916

Sono trascorsi 100 anni dall’accordo tra Francia e Regno Unito per spartirsi il Medio Oriente. Una scelta che pesa ancora oggi sulle vite delle persone. Come dimostra l’indifferenza internazionale verso la guerra in Siria. L’editoriale del numero 185 di Altreconomia del direttore, Pietro Raitano

Tratto da Altreconomia 185 — Settembre 2016

Le decisioni e gli accordi, le scelte e i tentennamenti, le azioni e le omissioni che compiamo -singolarmente, comunitariamente- possono avere conseguenze durature, e cambiare la storia. Ad esempio quest’anno ricorre il centenario dell’accordo Sykes-Picot: nel 1916, in piena Prima guerra mondiale, Regno Unito e Francia stipularono un patto segreto. Lo si ricorda così perché i negoziati vennero condotti dal francese François Georges-Picot e dal britannico Mark Sykes, i quali avevano un solo mandato: la spartizione delle aree di influenza nel Medio Oriente a seguito della sconfitta dell’Impero Ottomano. Ai francesi venne assegnata l’area comprendente parte di quelli che oggi  sono Turchia, Libano e Siria; agli inglesi Giordania, Iraq e Kuwait, grosso modo fino al Qatar, ovvero lo sfruttamento dei fiumi Tigri ed Eufrate.

I due governi cedettero alla Russia l’influenza della zona orientale della Turchia, oggi al confine con Georgia, Armenia e Iran. L’area dell’odierna Cisgiordania palestinese (compresa Gerusalemme) fu immaginata come “zona internazionale”, mentre lo strategico scalo di Haifa venne posto sotto controllo britannico, al fine di garantire l’accesso al Mediterraneo. L’opinione delle popolazioni locali non fu ovviamente presa in considerazione. L’accordo fa parte di quella sequela di eventi che oggi aiuta a capire la situazione e la posta in gioco nell’area. Ad esempio nel caso della guerra in Siria, che miete vittime innocenti tutti i giorni dal 2011, le cui immagini giungono fino a noi e magari ci commuovono. La scelta di non fermare la carneficina, di non intervenire a livello internazionale, peserà sul nostro futuro e sulle nostre coscienze a lungo.

Tra la fine del 2002 e l’inizio del 2003 si fecero sempre più insistenti le intenzioni del governo statunitense verso un attacco all’Iraq, dodici anni dopo la prima “guerra del Golfo” (e il pesante embargo internazionale che ne seguì). Il presidente George W. Bush sferrò l’attacco il 20 marzo 2003, con il sostegno della comunità internazionale e del Regno Unito in particolare, guidato allora da Tony Blair. Il pretesto per il conflitto fu il presunto legame tra il governo iracheno guidato da Saddam Hussein e il terrorismo internazionale, e la presenza di “armi di distruzione di massa” in mano al dittatore. Non ci volle molto a scoprire che né dei legami né soprattutto delle armi di distruzione di massa vi era traccia.

A distanza di 13 anni -e non meno di un milione di vittime- il monumentale rapporto di sir John Chilcot datato 6 luglio 2016 ha scritto parole definitive: “Abbiamo concluso che il Regno Unito decise di partecipare all’invasione dell’Iraq prima che le opzioni pacifiche di disarmo fossero esaurite. L’azione militare all’epoca non era l’unica risorsa”. Blair e Bush avevano mentito spudoratamente. Nel 2003 i giornali italiani danno conto di una spaccatura tra chi sostiene l’invasione -cui partecipò anche il nostro Paese- e chi vuole evitare l’ennesima guerra.

Lo spettro dei favorevoli va dal premio Nobel Elie Wiesel (“Odio la guerra, ma che cosa si poteva fare?”) a Emma Bonino del Partito Radicale (“Senza ipocrisie: il petrolio è sicuramente uno degli elementi in questione, ma lo è per tutti. Lo è per i francesi, lo è per i russi… cioè ognuno ha i suoi interessi. E io credo che questi interessi siano meglio salvaguardati con la democrazia”) passando per Alan Greenspan, allora presidente della Fed (“Dopo l’Iraq ci sarà la ripresa economica”) e Simon Peres (“Con la caduta di Saddam più facile la pace coi Palestinesi, ma la Siria pagherà caro l’appoggio dato a Baghdad); tra i contrari, l’allora ministro dell’Interno tedesco Otto Schily (“Una guerra in Iraq minaccerebbe di esporre il mondo, Europa compresa, a un’offensiva del terrorismo internazionale”), la leader religiosa battista americana Joan Campbell (“Siamo poco convinti che la guerra porti la fine del terrorismo. Invece temiamo che si andrà verso il peggio”) e persino Massimo D’Alema (“Cento anni di terrorismo se gli Stati Uniti occupano l’Iraq”).

Nel giorno dell’uscita del rapporto Chilcot, a 100 anni da Sykes-Picot, a Baghdad è scoppiata l’ennesima bomba: 250 morti, il peggior attentato terroristico della storia del Paese.

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