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Il razzismo istituzionale: norme, prassi e atti che discriminano in base origine e aspetto

© Ehimetalor Akhere Unuabona - Unsplash

Una ricerca analizza la discriminazione “istituzionale” verso gli stranieri in Italia. Dall’accesso alla casa ai contratti di lavoro. Ne parliamo con il sociologo Maurizio Ambrosini, docente della Statale di Milano e del Centro studi Medì, che l’ha realizzata in collaborazione con l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione

In fila al centro per l’impiego di una grande città del Nord. Tocca a me. L’impiegato gallonato mi spiega con deferenza dove andare e quali documenti presentare. Poi si rivolge a un uomo, cittadino bangladese, in fila dietro di me, passando inopinatamente al “tu”: “Ce l’hai permesso, eh? Se no devi tornare”. È esperienza comune che chi è (o appare) diverso sia fatto segno dai rappresentanti delle istituzioni di un trattamento discriminatorio.

“Quando discriminano le istituzioni: percezioni, esperienze, risposte” è il titolo -del tutto pertinente- di un’indagine promossa all’interno del progetto “Law-Leverage the access to welfare” che analizza la discriminazione di cui sono vittima gli stranieri nell’accesso alle misure di welfare e al mercato del lavoro. L’indagine si focalizza sulla discriminazione percepita, rilevando quindi in primis l’esperienza soggettiva, il vissuto e le dettagliate testimonianze di 522 cittadini di origine straniera nel nostro Paese, per strada, agli sportelli, in banca, al patronato e in centri di assistenza fiscale e così via. Ma appare subito chiaro che “lo sguardo diffidente e sminuente” che sette intervistati su dieci dichiarano di sentire su di sé è la sottile linea di confine tra la prassi e una discriminazione giuridica e istituzionale vera e propria.

Maurizio Ambrosini, docente ordinario presso il Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università Statale di Milano e responsabile scientifico del Centro studi migrazioni nel mediterraneo Medì di Genova, fa battere la lingua dove il dente duole: “Al di là degli atteggiamenti sminuenti che gli intervistati stranieri mettono in evidenza, emergono i vari volti dalla discriminazione istituzionale: non solo le prassi ma anche le procedure, i regolamenti, le ordinanze anche locali che rendono più difficile se non impossibile accedere alle diverse forme di welfare”. L’esempio più classico è quello dell’accesso all’edilizia sociale. “Più di una legislazione regionale richiede ancora una lunghezza irragionevole del periodo di residenza pregressa -fino a dieci anni- per poter accedere ai bandi. E non basta aver prevalso in sede giudiziaria in una singola Regione, come è capitato ad alcuni ricorrenti grazie agli avvocati di Asgi. Le altre Regioni non se ne danno per inteso”. L’housing discrimination si concretizza anche nella ricerca di una casa. Il 95% degli intervistati ha infatti vissuto discriminazioni più o meno esplicite: a due intervistati su tre è stato precluso l’affitto di un alloggio perché il proprietario non era disposto a locarlo a una persona straniera. Oppure per la richiesta di garanzie aggiuntive (nel 50% dei casi).

Un altro campo minato è quello del lavoro -in cui un terzo degli intervistati ha dovuto subire una qualche sperequazione- con particolare riferimento al tema dei concorsi. “Dal 2013, fatte salve le posizioni apicali, la legge ha abolito il requisito della cittadinanza per accedere a posti pubblici -nota Ambrosini-. Eppure molti bandi richiamano ancora quelle norme obsolete (lo lamentano quasi quattro intervistati su dieci del campione, ndr). Una parte delle discriminazioni sono dunque dovute alla mera sciatteria, alla ripetizione di prassi precedenti, anche senza una base giuridica”. Il 30% degli intervistati dichiara inoltre che dopo il colloquio in azienda non sono stati assunti pur avendone le qualifiche, sino ad arrivare situazioni di discriminazione più palese dove l’azienda ha fatto intendere che non assume stranieri (è capitato sempre a tre persone su dieci).

Le irregolarità contrattuali sono pane quotidiano: quasi un lavoratore su due ha affermato di lavorare o aver lavorato senza un contratto (47% dei rispondenti) o con un contratto parziale (c’è un contratto ma in busta paga sono segnate meno ore di quelle che effettivamente sono svolte), come dichiara il 37% degli intervistati. Ambrosini rincara la dose: “È la complessità di alcune procedure ad essere già di per sé discriminante, così come gli scarsi sforzi delle istituzioni per superare la difficoltà dovute alla lingua. Un esempio: l’ammissione agli asili nido in alcuni Comuni era una vera e propria corsa a ostacoli. Pensiamo alla prassi invalsa di richiedere tra i requisiti i documenti, spesso introvabili, che certifichino l’assenza di proprietà nel Paese d’origine”.

Ci sono poi fattori squisitamente soggettivi: l’atteggiamento delle forze dell’ordine è risultato discriminatorio per un intervistato su quattro. Si tratta, puntualizza la ricerca, di “processi di etichettamento che definiscono la rappresentazione del potenziale criminale e orientano l’operato delle forze dell’ordine cercando di massimizzare la probabilità di selezionare, tra i passanti, quelli che potrebbero risultare pericolosi”. Marocchini, tunisini, egiziani, gambiani, ecuadoriani, bangladesi, turchi e albanesi dichiarano più degli altri intervistati di essere fermati per strada per il controllo dei documenti. Non solo. “Spesso è forte anche l’ostilità di chi sta dall’altra parte di uno sportello -afferma Ambrosini-. Si pensi, precisa la ricerca, all’operatore di uno sportello pubblico che assume atteggiamenti scortesi, poco rispettosi e persino negligenti, tali da porre alcuni utenti in una condizione di oggettivo svantaggio nella fruizione di un servizio”.

Le ragioni alla base di queste discriminazioni percepite sembrano essere legate -in sintesi- soprattutto a quattro fattori: l’essere straniero (il 30% delle risposte), l’accento o il modo in cui si parla l’italiano (16%), il colore della pelle (13%), il Paese di origine (12%) e le credenze religiose (8%). “Il fenotipo -conclude la ricerca- ha un peso significativo, esiste ancora una ‘linea del colore’ in base alla quale le persone sono maggiormente discriminate, come emerge dall’analisi dei Paesi di provenienza: la diffidenza riguarda in primis le persone di origine africana, in particolare quelle che provengono dall’Africa sub-sahariana. Ma anche le persone provenienti dai Balcani (in particolare i cittadini albanesi) hanno tassi più alti di discriminazione percepita, dovuti anche ad una lunga retorica pregiudizievole negli anni passati. Un intervistato su due denuncia che in luoghi pubblici è stato fatto segno di commenti sgradevoli, offese o insulti, sguardi inappropriati, gesti offensivi. E l’essere in Italia da anni, con un buon livello di inserimento sociale e lavorativo non sembra mettere al riparo dalle discriminazioni” La narrazione degli intervistati -in conclusione- fa emergere un generale senso di “svalutazione sociale” da parte dell’altro che perpetua una rappresentazione distorta di questa parte della popolazione, spesso tollerati perché funzionali al tessuto produttivo del Paese e rimarca “una precisa stratificazione sociale che vede un ‘loro’ e un ‘noi’ in un rapporto immutato di dominanza”.

Che cosa fare per cambiare? Così riflette Ambrosini: “Una dimensione importante è il rafforzamento della consapevolezza da parte degli immigrati stessi, perché spesso non denunciano le discriminazioni e solo il 41% saprebbe a chi rivolgersi. Il fenomeno dell’undereporting è molto diffuso, soprattutto tra chi arriva da Paesi dove è difficile mettere in discussione l’autorità costituita”. Un secondo aspetto -legato al primo- è la necessità di rafforzare le associazioni di immigrati e metterle in grado di misurarsi nell’arena pubblica, mentre finora è stata Asgi a adire le vie legali, a dispetto della scarsa proattività dei diretti interessati.

“Sotto un altro punto di vista -continua Ambrosini- è tempo in sede istituzionale di fare pulizia delle pratiche discriminatorie correnti e reiterate, anche perché gli stessi immigrati ne hanno scarsa contezza: ho incontrato persone di seconda generazione ancora convinte che fosse valida la norma che riservava agli italiani i posti nei concorsi pubblici, a prescindere dal ruolo”. Un altro vulnus istituzionale è quello del riconoscimento dei titoli di studio: “Non sic et simpliciter, ma con adeguati filtri è senz’altro possibile renderlo più facile e ridurre l’apparato burocratico al minimo indispensabile”. Infine una questione “culturale”: “È necessario mettere in cantiere dei corsi ad hoc per i dipendenti pubblici, nei vari ambiti. Ad esempio per le forze dell’ordine che secondo la ricerca sono al top della percezione di comportamenti discriminatori. La cosa triste che una cosa ovvia in altri Paesi europei oggi in Italia suonerebbe quasi provocatoria. Se la discriminazione istituzionale si nutre di “radici comuni di pregiudizio”, solo lavorando per cambiare questo terreno sarà possibile escluderne o mitigarne le conseguenze.

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